sabato 16 febbraio 2008

Come Palermo e le zone limitrofe hanno infettato di Mafia prima la Sicilia, poi anche Messina, la Calabria e la Campania






La mafia ,com'è noto, è nata a Palermo. Se Messina non avesse avuto la sventura di riposare geograficamente nella regione Sicilia , non sarebbe stata infettata dal fenomeno mafioso. A ben guardare da Palermo la mafia ha infettato prima tutta la Sicilia, poi la città di Messina, fino a "salire" territorialmente in Calabria (ndrangheta), in Campania (Camorra) ed in parte in Puglia (Sacra Corona Unita). E' normale che più si è vicini al centro vitale mafioso e più ci si possa "infettare". Se Messina non fosse stata geograficamente inserita nella regione Sicilia e quindi vicino a Palermo, non avrebbe conosciuto alcun fenomeno mafioso. C'è qualcuno che pensa che se Messina fosse stata posta geograficamente in Grecia o in Olanda, avrebbe conosciuto il fenomeno mafioso? No. Lo stesso se Varese fosse stata posta geograficamente nella Regione Sicilia sarebbe stata "infettata" da Palermo. Giova quindi sempre ricordare come la mafia presente a Messina è solo l'effetto di trovarci nella stessa regione geograficamente del centro di imputazione mafioso.

35 commenti:

Anonimo ha detto...

http://www.terrelibere.org/mostre/tesi/tesi2.htm

Mafia come sistema
Indice
Per un paradigma della complessità
Messina provincia di mafia
Appendice




Parte seconda

Messina provincia di mafia





Certamente, manca nelle province orientali
quella classe di malfattori che desola le altre;
sono rare le violenze sanguinarie; ma ciò è in gran
parte perché i prepotenti sanno con altri mezzi
prevalere a dispetto delle leggi e della giustizia

Leopoldo Franchetti















Introduzione.

"Ci sono grosse società sportive che rubano e riciclano denaro della mafia". E' la mattina del 5 dicembre 1995: la fotografia dell'assessore comunale allo sport sta sotto il titolone della prima pagina della "Gazzetta del Sud".

Nella città dove la mafia non esiste e ogni cosa si dice a mezze frasi e sottintesi, una dichiarazione del genere basta e avanza per far chiedere le dimissioni dell'incauto assessore.

Esplode il "caso Giunta". La discussione verte sul tema: può una persona tanto incauta ricoprire un ruolo di responsabilità in una città come Messina ? La risposta è (quasi) unanimemente negativa. Si chiedono scuse ufficiali. Le società sportive messinesi diramano un comunicato di ringraziamento: "accettiamo le scuse, sindaco Providenti, perché l'incauto assessore Giunta, in un crescendo di confuse dichiarazioni, ha sconfessato sé stesso non riuscendo a supportare o documentare le fumose, demagogiche, scandalistiche affermazioni. Accettiamo le scuse perché il documento da lei trasmesso al Consiglio comunale smentisce le affermazioni dell'assessore Giunta".

Servirebbe la penna di Sciascia per descrivere la seduta del consiglio comunale dell'11 dicembre 1996. Solo la presenza di esponenti delle associazioni serve ad evitare un clima da processo. Il Polo chiede compatto le dimissioni, in precedenza anche socialisti e Pds avevano preso le distanze, ed il sindaco aveva ipotizzato "modifiche alle deleghe assessoriali, comunque già decise prima che scoppiasse il caso".

Si apre la seduta, i consiglieri del Polo ribadiscono la richiesta di dimissioni e quindi si scagliano contro la "cultura del sospetto e della delegittimazione"; infine, presentano un ordine del giorno contro "l'assessore allo Sport il quale, ancora una volta, dimostra non solo poca sensibilità nel modo di intendere la propria figura istituzionale, ma anche una concezione priva di qualsiasi elemento di cultura sportiva. Reiteriamo il giudizio negativo evidenziando la superficialità dimostrata nel rilasciare le gravissime dichiarazioni che hanno danneggiato l'immagine della nostra città [...]".

"Adesso nessun messinese manderà i propri figli a praticare attività sportive" afferma un consigliere di Forza Italia in assemblea "perché l'ambiente è stato definito corrotto e mafioso".

L'assessore Giunta replica affermando che il rischio mafioso è sempre in agguato e cita una serie di casi specifici tra cui quello di Giuseppe Capurro (accusato di associazione mafiosa e usura e sponsor in quel periodo di società sportive messinesi, v. infra) come sostegno alle sue affermazioni.

Le contro-repliche dei consiglieri di maggioranza sono durissime e ribadiscono la richiesta di revoca del mandato a Giunta, richiesta non accolta.

Di certo, sarebbe stato molto più utile aprire un dibattito a più voci sulla questione: è vero che ci sono società sportive messinesi coinvolte in vicende di mafia e riciclaggio ? Vedremo più avanti, nel paragrafo dedicato ai rapporti tra mafia e imprenditoria, che la risposta è positiva, e quindi una eventuale discussione sul tema sarebbe stata di estremo interesse. Ma un pubblico dibattito su questo argomento - al di là delle iniziative di Giunta e di altre denunce condotte in condizioni di isolamento - non si è mai aperto.

Una piccola storia, di quelle che stanno un paio di giorni sulle pagine di cronaca e nessuno poi ricorda più. Queste piccole storie sono straordinarie, aiutano a capire la città di Messina più di ogni altra cosa.

Vediamo brevemente un altro esempio: per uno scherzo, un elettrauto messinese finisce in televisione e sui giornali, alla metà di dicembre del '97.

"Ha vinto lui il Totogol, 5 miliardi e mezzo", dice un suo amico gommista ai microfoni della Rai. Da qualche giorno i mass media - locali e nazionali - andavano cercando il vincitore, ed il povero elettrauto è stato sommerso di telefonate. I cronisti lo vogliono intervistare, i parenti e gli amici gli chiedono di ricordarsi anche di loro, ora che è ricco.

L'elettrauto giura e spergiura che non è vero, non ha vinto proprio niente. Ma le telefonate continuano ad arrivare.

Ed una di queste gli chiede il pizzo sulla vincita dicendo: - "E' Natale, pensa ai carcerati". A questo punto, ora che pure la sua incolumità è a rischio, il falso vincitore va dai carabinieri e denuncia il gommista burlone, che confessa.

Ma i media non ne hanno abbastanza, e continuano a soffiare sulla psicosi del vincitore, alla ricerca spasmodica e grottesca del fortunato.

Questa favola alla rovescia mette in evidenza il delirio del denaro e la corsa alla ricchezza, la stupida inutilità dei mass media ed anche una mafia così presente da chiedere il pizzo pure sulle vincite al "Totogol". Un ritratto antropologico che ci offre una città degenerata, sciocca, violenta.



L'esistenza della mafia a Messina è stata negata, minimizzata, occultata. Ed anche adesso, ciò che è ormai scontato per altre aree della Sicilia, a Messina non lo è affatto. Eppure il maxiprocesso messinese è precedente a quello palermitano. Come vedremo, anche a Messina ci sono stati morti a decine (e la rimozione collettiva di questo eccidio è una delle vergogne di questa città). Uomini uccisi in pieno giorno e in pieno centro, da killer che non avevano neanche la preoccupazione di coprirsi il volto.

Vedremo anche che l'ingresso della mafia nell'economia legale è avvenuto nella maniera più diretta, con l'acquisizione di esercizi commerciali che operavano nel centro cittadino, nel salotto della città.

Vedremo persino una spaventosa serie di episodi criminali che scandiscono la vita dell'ateneo messinese nell'indifferenza generale.

Una città muta, timorosa e indifferente ben si merita un quotidiano, monopolista dell'informazione cittadina, che preferisce parlare di 'mala' e minimizzare la questione criminale.

Qui l'antimafia è ancora attività per pochi 'visionari', i quali sono più un corpo estraneo che un'avanguardia. E però la situazione delle periferie, dove non mancano le attestazioni di stima e di affetto per i boss locali, non è molto diversa da quella delle tradizionali città di mafia.

Messina consuma più di quello che produce: consuma molto e non produce quasi nulla. Stando alle statistiche dovrebbe essere una città piena di poveri e disoccupati. Certamente buona parte del denaro che circola è dovuto ai flussi di denaro pubblico che, opportunamente orientati e 'scambiati', hanno prodotto un regime che oggi appare in grave crisi. Sicuramente il lavoro nero non rientra nelle statistiche, e di lavoro nero a Messina ce n'è tanto.

Ma non basta: è difficile non pensare che la restante quota del reddito prodotto sia semplicemente il frutto delle attività criminali e dell'accumulazione illegale.

Quali problemi si incontrano a condurre una ricerca sulla mafia in una realtà che - di mafia - preferisce non sentire parlare ?

- Intanto l'assenza quasi totale di lavori organici di ricerca precedenti, sia su basi scientifiche che di semplice 'ricognizione' giornalistica; gli intellettuali locali preferiscono da sempre dedicarsi ad altro. Al contrario, la bibliografia su zone come il palermitano è sterminata. Ma anche sulla Calabria esistono numerosi testi, alcuni di ottimo valore.

- In secondo luogo, la scarsa qualità delle fonti, sia quelle di natura giornalistica che quelle di natura giudiziaria; nel primo caso, si paga la mancanza di una tradizione di giornalismo d'inchiesta: a Messina domina la cronaca e l'informazione "usa e getta". Dal punto di vista giudiziario, la magistratura messinese (per i motivi più vari) ha condotto processi limitati al livello del braccio militare dell'organizzazione criminale, toccando in maniera limitatissima l'aspetto imprenditoriale (non c'è stata nessuna confisca di beni mafiosi a Messina, tanto per fare un esempio) e non sfiorando neanche i legami mafia - politica che pure sono stati rilevanti.

- Infine, l'enorme difficoltà di accesso alle fonti, specie agli atti giudiziari. In alcuni uffici del Tribunale prevale la diffidenza; ed i tempi burocratici non permettono certo un accesso in tempi brevi (per non parlare dei costi...).

E' molto importante precisare i criteri che mi hanno guidato nell'utilizzo delle fonti stesse e chiarire equivoci che sempre più spesso si creano. In particolare occorre ricordare che questa è un'analisi di sociologia e non un lavoro giudiziario.

Infatti, il compito del magistrato è quello di dimostrare che un tale comportamento è avvenuto e costituisce reato (corrisponde cioè ad una delle fattispecie previste dal codice penale).

La mia ottica, invece, è del tutto diversa: si tratta di descrivere un dato comportamento, dimostrare che assume una rilevanza sociale (economica, culturale, etc.), evidenziarne la funzione all'interno del sistema sociale.

Ovviamente un ricercatore non ha il compito né di assolvere né di condannare; rimane l'aspetto etico, ma il giudizio morale è altra cosa rispetto alla descrizione: di certo la influenza, rimane implicito, così come influenza l'interpretazione.

Gli atti giudiziari vengono quindi utilizzati solo come fonte di informazioni non reperibili per altra via. E' evidente che, come si deduce da quanto detto finora, ciò che per un magistrato assume grande rilevanza può essere ininfluente per l'ottica sociologica, e viceversa.

In particolare, anche da una sentenza di assoluzione possono essere derivati elementi utili ad un lavoro di ricostruzione dei legami sociali; ma, come è ovvio, il magistrato può giudicare questi stessi elementi indifferenti per i suoi fini.


Per quanto riguarda la teoria generale, esiste il problema della sua validità. A questo punto occorre operare una serie di distinzioni. Intanto tra città e provincia. Quindi tra i diversi settori.

Per ciò che riguarda la provincia, ed in particolare l'area che ha come epicentro la città di Barcellona, si individueranno i seguenti elementi:

1. una premessa di carattere storico, che indica il peso che in un passato anche non recente hanno avuto gruppi di tipo mafioso, cui corrisponde la speculare assenza dei movimenti di lotta per i diritti sociali e la democrazia;

2. un intreccio tra imprese locali legate alle cosche, centri di erogazione della spesa pubblica, imprese di carattere regionale a loro volta legate ad organizzazioni mafiose di importanza regionale; la presenza di attività imprenditoriali - mafiose autonome;

3. un intreccio tra politica e clan criminali; casi in cui criminalità ed affarismo si intrecciano; in generale, la contiguità tra numerosi esponenti della borghesia (magistrati, politici, professionisti) ed esponenti del mondo criminale (si veda il caso, di estrema rilevanza, dell'imprenditore Santo Sfameni);

4. comportamenti omertosi di massa (a vari livelli), evidenziati in occasione del delitto Alfano;

5. una vasta rete di protezioni, anche istituzionali, che hanno permesso per anni la trasformazione della provincia tirrenica messinese di un'oasi per i latitanti di Cosa Nostra, catanesi e palermitani.

Per ciò che riguarda il capoluogo:

1. il ruolo dell'attività estorsiva, della presenza di imprese mafiose, dell'acquisizione di imprese "sane" da parte di soggetti mafiosi e dell'ingresso dell'imprenditoria mafiosa nell'economia legale;

2. elementi di contiguità tra politica e mafia;

3. elementi di contiguità tra mafia e magistratura;

4. esempi di omertà che riguardano comunità più o meno vaste.

Si deve dimostrare a questo punto che ognuno di questi elementi non è esclusiva di una minoranza, ma al contrario di una maggioranza di soggetti ?

Fare questa operazione su basi quantitative è estremamente difficile se non impossibile. Anche in questo caso occorre distinguere:

1. Nel caso di rapporti mafia - politica la questione non può essere posta in termini quantitativi perché un singolo ministro colluso con la mafia può avere il peso di mille e più consiglieri comunali onesti ed integerrimi.

In questo caso, il confronto può essere posto solo in termini qualitativi (i quali sono tutt'altro che oggettivi) e la teoria potrebbe essere falsificata, per esempio, elencando una serie di contro-esempi (di politici che non hanno avuto alcun rapporto con la mafia), di uguale rilevanza qualitativa. Stesso discorso per la magistratura.

2. Il caso dell'imprenditoria è parzialmente diverso, anche se pure in questo caso è diverso il ruolo ed il peso del piccolo esercizio situato nel quartiere di mafia e della media o grande impresa che opera su scala nazionale.

Prendendo ad esempio il caso delle estorsioni, si è tentato per quanto possibile di integrare i dati disponibili, da quelli qualitativi (una serie di casi-esempio) a quelli di tipo quantitativo (numero di attentati ed estorsioni accertate, numero di aderenti all'associazione antiracket, confronto con altre aree).

Il problema, però, non può essere risolto con facilità: prendiamo le estorsioni accertate. Un calo di questo dato può avere due significati esattamente opposti:

1. si fanno meno estorsioni;

2. vengono accertate meno estorsioni (per maggiore omertà, maggiore abilità degli estortori o ancora per altri motivi).

Il caso-esempio rimane il mezzo privilegiato per la descrizione dei legami tra criminalità e società civile. Ed è chiaro che il risultato che deriverà dalle pagine seguenti può essere interpretato in vari modi, anche se dovrebbero rimanere due punti fermi:

1. non esiste un confine netto in nessun settore tra crimine organizzato e società;

2. la mafia anche a Messina può essere definita come sistema se con questo termine si intende un insieme di elementi, appartenenti a "mondi" che si vorrebbero distanti tra loro o addirittura in conflitto, interrelati e interdipendenti tra loro.

A questo punto il dubbio diventa: questo sistema è egemone oppure no rispetto al resto della società ?













10. capitolo > Struttura sociale messinese





Alcune brevi note sul metodo. In un articolo del 1953, Claude Lévi Strauss polemizza con lo strutturalismo di Radcliffe-Brown, criticandone il piatto empirismo, rifiutando il parallelismo tra organismo vivente e corpo sociale ed affermando infine che il concetto di struttura sociale non ha alcun referente empirico immediato, non esiste in sé, ma è semplicemente un modello costruito in base alla realtà empirica osservata. Si tratta dunque di uno strumento interpretativo.

Di qui la differenza tra relazioni sociali e struttura sociale: "le relazioni sociali sono la materia prima impiegata per la costruzione dei modelli che rendono manifesta la struttura sociale".

Ma l'analisi di Lévi Strauss non si ferma qui: egli afferma che nelle società complesse il modello meccanico (quello i cui elementi costitutivi sono sulla stessa scala dei fenomeni che individuano) non è sufficiente, e quindi occorre ricorrere a modelli statistici.

Tuttavia, è solo il primo modello che coglie la profondità della struttura, mentre il secondo descrive solo linee di tendenza [Il concetto di struttura in etnologia, in Lévi-Strauss 1966, 309 sgg].

Nelle pagine che seguiranno, ho tenuto conto di queste problematiche, preferendo però cogliere alcuni elementi strutturali (forse in qualche caso imprecisi e parziali) piuttosto che perdermi nel mare dei dati statistici, anche alla luce della considerazione secondo cui la società messinese è sì una società moderna e complessa, ma presenta enclave pre-moderne o comunque comportamenti che possono essere descritti anche mediante modelli meccanici.





Il quadro nazionale e regionale

La situazione politica italiana presenta profonde spaccature, in relazione a differenze profonde di tipo socio-economico, che affondano le radici nella stessa struttura sociale italiana, che può dividersi [Paci 1992, 183 sgg] in quattro grandi aree:

Area produttivo-garantita, inserita nei processi di produzione (borghesia capitalista, classe operaia garantita) e dentro il sistema della cittadinanza (reddito costante, diritti sociali, etc.).
Riproduttivo-garantita, cioè l'insieme dei soggetti inseriti negli apparati dello Stato e dei servizi pubblici volti a permettere la riproduzione della forza lavoro e delle condizioni generali (politiche, culturali, ambientali, ecc.) dello sviluppo capitalistico. Si tratta di un settore storicamente inserito nei diritti di cittadinanza, oggi in crisi sia per orientamenti clientelari-corporativi che ne hanno impedito una ridefinizione di ruolo, sia per la diminuita importanza del settore in un sistema globalizzato e neoliberista (crisi della forma stato, crisi del welfare, etc.).
Produttiva-non garantita, l'area della piccola impresa e dell'"economia diffusa", vera protagonista della globalizzazione ed esaltata come unico modello possibile (il famoso "Nord-Est" delle piccole aziende inserite nel mercato internazionale). Si caratterizza tuttavia per la negazione dei diritti sociali e per il precariato strutturale. Presenta spesso forti elementi di egoismo e materialismo.
Riproduttiva-non garantita: riguarda l'economia di sussistenza, l'economia informale della riproduzione e tutti i soggetti generalmente inseriti nell'ambito della marginalità.
Vedremo tra breve che la situazione meridionale, e quella messinese in particolare, vede una compresenza dei settori B e D. La tendenza in atto favorisce un ridimensionamento di B ed una conseguente crescita dell'ultima area. I temi del disagio, della povertà, degli ambienti criminogeni sono strettamente legati a questi processi.

Il sistema della produzione e del lavoro può schematicamente essere diviso in tre grandi settori [Paci 1992, 51 sgg]:

Un'area di lavoro produttivo centrata sulla grande industria, caratterizzata da rigidità (sempre più contestata e indebolita) della forza lavoro. E' la situazione tipica dell'Italia nord-occidentale. I grandi gruppi industriali nascono, si consolidano e vivono grazie all'intervento statale (protezionismo, incentivazioni e sovvenzioni pubbliche, speculazioni finanziarie). Possono essere ritenuti frutto di interventi politico-istituzionali: un dato artificiale e non il risultato delle forze di mercato [Paci 1992, 54], come invece amano auto-rappresentarsi.
L'area del lavoro produttivo legato a forme di occupazione precaria, spesso invisibile alle statistiche ufficiali, presso le piccole unità produttive industriali e artigiane o a domicilio, caratterizzate dalla flessibilità. E' la realtà tipica del centro-nord-est.
Il settore del lavoro improduttivo e della 'massa marginale', comprendente sia i settori ad occupazione garantita nel terziario pubblico, sia la vasta area della popolazione sussidiata e assistita. Questa situazione è in genere riferita al Meridione.
Ovviamente, la tendenza neo-liberista in atto in Italia da alcuni anni mira a colpire le aree garantite (sia forme di assistenza parassitaria che diritti sociali dei lavoratori) e ad estendere il secondo modello al resto del Paese.



Prima di analizzare la specifica struttura dell'area messinese, occorre osservare il contesto più ampio in cui questa s'inserisce, e cioè il territorio siciliano, distinto [Catanzaro, 1978] in cinque aree:

Concentrazioni urbane (Palermo, Catania, [...] Messina) caratterizzate da: attrazione relativa della popolazione; peso dominante del settore terziario; struttura frammentata dal settore industriale (piccole imprese) governato dal ciclo dell'edilizia e delle opere pubbliche; forte segmentazione del mercato del lavoro a tre livelli: settore garantito riproduttivo (terziario pubblico e parapubblico), settore marginale riproduttivo (piccole imprese "residuali") e settore marginale riproduttivo-assistito ("sottoproletariato" urbano, piccola borghesia autonoma, ecc.); forte disarticolazione di classe; anomia e clientelarizzazione dei comportamenti politici.
Poli industriali (Siracusa-Augusta, Gela, Milazzo, Termini Imerese): relativa crescita demografica all'interno di contesti urbani medio-piccoli; dominio del settore industriale fortemente concentrato e sovra-capitalizzato, scarsa o nulla presenza di piccole imprese, ridotto peso del terziario; prevalenza del settore garantito-produttivo; tendenziale articolazione dicotomica di classe; maggiore trasparenza dei comportamenti politici.
Zone di agricoltura capitalistica (Piana di Catania e alcune zone del trapanese, dell'agrigentino e del palermitano a coltivazione specializzata): peso prevalente dell'agricoltura sia in termini di prodotto che di occupazione; accentuata presenza di occupazione dipendente, produttiva e relativamente stabile; tendenziale dicotomizzazione dei rapporti di classe e degli atteggiamenti politici.
Zone di piccola proprietà contadina efficiente (ex-tipico il ragusano): si distingue dall'area precedente oltre che per la maggiore frammentazione della superficie agricola e per l'estrema intensità e produttività delle colture, il che consente di ottenere redditi pro-capite più elevati, per l'elevata "mobilità sociale ascendente" e la conseguente formazione di una classe media indipendente.
Aree d'esodo e di pauperismo (la Sicilia interna ed in particolare l'intera provincia di Enna, e buona parte del nisseno e della provincia di Agrigento): tessuto industriale embrionale o quasi inesistente; comunque facente perno sull'edilizia; bassissimo prodotto pro-capite - metà circa di quello nazionale. Alta integrazione di reddito attraverso "sussidi" pubblici e rimesse degli emigrati; dominanza di ceti legati ad attività marginali, riproduttive ed assistite.




Messina: la città riproduttiva

Dare un quadro generale e schematico della struttura sociale complessiva messinese è indispensabile per capire in quale ambiente si inscrive l'elemento mafioso. E' utile soprattutto per capire le motivazioni profonde della persistenza del fenomeno mafioso.

Abbiamo già detto che il fenomeno criminale non può essere interpretato come un cancro estraneo alla società. E' di conseguenza essenziale conoscere per prima cosa i caratteri essenziali della società mafiogena.

Prima di addentrarci nell'analisi della struttura sociale messinese occorre fare una breve premessa sul concetto di classe, che qui sarà usato più volte.

Le principali teorie sulla classe sono quelle di Karl Marx e di Max Weber, le cui idee hanno influenzato tutte le teorizzazioni successive. Anche chi ha elaborato teorie contrarie a quelle di Marx e Weber, si è tuttavia basato in qualche misura sui loro scritti.

Schematicamente, in Marx una classe è un gruppo di individui che condivide un determinato rapporto con i mezzi di produzione, cioè i mezzi attraverso i quali ci si guadagna da vivere. La differenza fondamentale tra le classi è il possesso o meno dei mezzi di produzione. Marx ammette anche la presenza di quelle che chiama le classi di transizione, cioè gruppi di classe che sopravvivono ad un precedente sistema.

Marx dedica particolare attenzione non solo al conflitto tra le classi, ma anche ai conflitti interni, in particolare tra capitalisti finanziari e industriali; tra piccole e grandi imprese; tra disoccupati e proletariato garantito.

Il concetto di classe si riferisce alla condizione socio-economica degli individui e non alle credenze che gli stessi individui possono avere riguardo la propria condizione.

Anche Max Weber ritiene che la classe si definisca in base a condizioni socio-economiche oggettive e non soggettive, ma osserva che le divisioni di classe non dipendono soltanto dal controllo dei mezzi di produzione, ma anche dal possesso di risorse immateriali quali le capacità, le credenziali e la qualificazione (titoli di studio, etc.).

Weber distingue anche i concetti di status, intendendo con questo termine il prestigio sociale attribuito ad un individuo, e di partito, cioè un gruppo di individui che operano insieme in virtù di origini, interessi o obiettivi comuni.

E' evidente l'influenza che queste idee hanno avuto sulla costruzione di modelli sociali. Recentemente, in uno studio sulle classi sociali in Italia, l'economista Sylos Labini distingueva - sulla base del modo di produzione del reddito - le seguenti categorie:

1. la borghesia, formata dai grandi proprietari di fondi rustici o urbani (rendite), dagli imprenditori e alti dirigenti di società per azioni (profitti e redditi misti ), da professionisti (redditi misti);

2. la piccola borghesia impiegatizia, costituita da impiegati pubblici e privati (stipendi);

3. la piccola borghesia relativamente autonoma, composta da coltivatori diretti, artigiani e commercianti (redditi misti);

4. categorie particolari di piccola borghesia, cioè militari e religiosi (stipendi);

5. la classe operaia (salari);

6. il sottoproletariato.

[Sylos Labini 1974]



A Messina, l'elemento sociale dominante è una borghesia di Stato ed una imprenditoria di tipo assistito. Predomina la figura della famiglia, erede dell'aristocrazia del passato o figlia del boom economico.

Rimane comunque una élite ristretta mentre la maggioranza è costituita da un grande ceto medio, diviso tra piccoli imprenditori, proprietari di esercizi commerciali e poi impiegati dello stato o dipendenti dei negozi o delle piccole imprese.

Infine il settore dei marginali, dove predomina il lavoro nero o quello precario e saltuario, affiancato spesso e talvolta sostituito dalle attività illegali. Proprio quest'ultima area rischia di estendersi e coinvolgere i ceti medi.




Gli elementi fondamentali da tenere presenti sono fondamentalmente due: il primo è la "società riproduttiva". Il secondo è "l'economia della redistribuzione clientelare". Questi concetti sono stati evidenziati da vari autori tra cui Renate Siebert [1997, 25], che riprendeva una precedente teorizzazione di Nella Ginatempo.

Si tratta di due elementi strettamente intrecciati e da tempo riferiti a tutta la società meridionale. Questi schemi interpretativi trovano ampia conferma in una società come quella messinese, che anzi rappresenta forse un caso estremo.

Si è più volte detto che al Sud esistono eccezioni, aree non riproduttive, settori inseriti nell'economia di mercato. Ma questo vale sempre meno nell'area peloritana, anche in considerazione della crisi senza uscita che ha colpito le poche realtà produttive presenti.

Vediamo cosa di intende per società riproduttiva.

1. Assenza di una struttura produttiva.

2. Dipendenza dal flusso di denaro pubblico esterno.

3. Presenza di una rete clientelare di distribuzione di ogni tipo di risorsa.

Le conseguenze di questi elementi sono note: "sul piano sociale la società riproduttiva è caratterizzata da una bassa qualità della vita a causa della specifica carenza qualitativa e quantitativa del sistema pubblico di infrastrutture e servizi" [Siebert 1997, 25].

Altre conseguenze sono l'assenza, sia materiale che nella coscienza collettiva, della sfera pubblica; l'assenza di una etica del lavoro e la mancata formazione di movimenti di massa come quello operaio, studentesco e femminista [ibidem].

Il terzo punto richiama la distribuzione delle risorse, che costituisce una variante del modello di Polanyi, incentrato sulla redistribuzione e riguardante la nascita stessa di molte forme statali, il cui compito è la raccolta delle risorse mediante forme di tassazione e la redistribuzione in vari modi ai sottoposti. Gli esempi sono molteplici, dall'antica Cina agli imperi Incas fino ai regni indiani [Polanyi 1974, 68 sgg].

Da questa struttura fondamentale sono poi derivate molte forme statali moderne, dai sistemi socialisti fino al Welfare State. Ma, nei sistemi statali, "la redistribuzione ha un carattere di pianificazione che prescinde da ogni carattare morale" o non razionale.

La variante concretizzata nell'Italia meridionale ha assunto la forma del sistema clientelare: le risorse accumulate al centro ("a Roma") sono redistribuite mediante un sistema di scambi fondati sul do ut des.

In particolare, ed in particolare per l'area messinese, si può parlare di "riproduzione socio-politica allargata", che prevede

la presenza di una élite politica dotata di una grande capacità di controllo delle risorse pubbliche locali e nazionali;
talvolta, la capacità di attivare investimenti produttivi, con il fine di attivare non tanto uno sviluppo economico quanto dei meccanismi di moltiplicazione del consenso (fabbriche assistite, grandi opere pubbliche, Università, etc.);
2. una continua attività finalizzata ad estendere, diversificare ed allargare le reti clientelari;

3. offrire sbocchi di mobilità sociale ascendente (reali, illusori o precari a secondo delle circostanze).

Il funzionamento del sistema determina l'egemonia sociale dell'élite, la sua capacità di riprodursi e l'assenza di significative forme di opposizione (in questo contesto il consociativismo si afferma prima che altrove ed il compromesso è pratica abituale). Il limite del sistema è la dipendenza dal flusso di spesa pubblica: la stessa élite è costretta a tenere stretti contatti col centro, ad imbastire cioè relazioni col potere centrale, in modo da non compromettere il proprio potere.

Uno degli effetti principali di tale sistema è la solidarietà verticale, che "unisce i membri della borghesia ai ceti popolari in un rapporto di reciprocità asimmetrica": l'esempio più evidente è "l'accesso al lavoro legato allo scambio voti /favori", un legame asimmetrico perché "crea dipendenza sia che la promessa non si realizzi (rimane l'attesa e la speranza), sia che il lavoro ("il posto") venga concesso: è un favore non un diritto e chi riceve un beneficio può dire grazie e chinare la testa. Nessun conflitto sociale, nessun sindacato, nessuna rivendicazione".

In tale modo si spiega anche l'assenza o l'inconsistenza dei movimenti di massa citata dalla Siebert ed anche la facilità incontrata dalle strutture repressive, formali e no, nell'eliminazione di elementi embrionali di contestazione e cambiamento.



E' noto che questo sistema era centrato sul ruolo della Democrazia Cristiana, vera e propria agenzia di distribuzione e di costruzione delle reti clientelari. La fine della Dc, conseguenza di vasti cambiamenti geo-politici ed economici, ha messo in crisi questo modello, con il rischio del 'de-linking', cioè lo sganciamento del Settentrione dalla 'palla al piede' meridionale, e dello scivolamento del Sud da semi-periferia e periferia vera e propria.





Messina: le classi sociali

Dopo aver visto i meccanismi di funzionamento della società messinese, è possibile definire brevemente i caratteri essenziali di ciascuna categoria.

A partire dal prossimo capitolo, sarà possibile vedere come in ogni parte del sistema ci siano elementi che si adattano al sistema mafioso, nel senso che ciascuna componente svolge un preciso compito, interagisce con le altre, porta un contributo al funzionamento del sistema nel suo complesso.

Nel frattempo, l'analisi ha un compito puramente descrittivo.





A. Alta borghesia e grande impresa

Nella città di Messina ha storicamente pesato l'assenza dei movimenti democratici e popolari, per cui la società è sempre stata soggetta al dominio di una ristretta élite.

Prima feudale ed aristocratica, poi liberale e massonica, quindi convertitasi al fascismo ed infine democristiana, filo-atlantica ed anticomunista.

Dopo aver detto che l'alta borghesia messinese si configura come insieme di famiglie (e talvolta di gruppi di potere), possiamo distinguere tre tipologie.

1. Le famiglie aristocratiche.

2. Le famiglie imprenditrici.

3. I nuovi arrivati, ovvero famiglie il cui ingresso nell'élite cittadina è recente.

Esempi della prima categoria sono i Marullo di Condojanni e i d'Alcontres; della seconda i Franza ed i Rodriquez; infine, della terza, la famiglia Cuzzocrea.

Nonostante grandi differenze tra loro, possiamo definire tutte le famiglie come borghesia di Stato, in una duplice accezione.

1. Gli esponenti delle principali famiglie accedono a posti di potere nell'apparato pubblico.

Talvolta conducono l'attività politica o quella amministrativa senza il necessario "spirito pubblico" e con maggiore riguardo ad interessi particolaristici. Si tratta di comportamenti tipici della società messinese, essendo piuttosto diffuso nell'élite cittadina un senso del dominio, che significa disprezzo della democrazia (alleviato da massicce dosi di populismo), culto del prestigio, mania dell'interesse privato inteso appunto come assenza di senso civico.

Il problema della mancata distinzione tra pubblico e privato è tipico della società messinese, a tutti i livelli. L'élite pensa di essere il pubblico (cioè il potere), per il semplice fatto che lo è da sempre. Solo per fare un esempio, mai un sindaco ha pensato di poter governare in contrasto con i desideri e gli affari dell'élite cittadina.

2. Le attività imprenditoriali hanno beneficiato dell'unione con la politica e con i flussi di denaro pubblico. Talvolta, quando il confronto con il mercato è avvenuto senza la tradizionale protezione politica, l'impresa messinese è entrata in crisi irreversibile.

Per completare il quadro dell'alta borghesia messinese è da ricordare la presenza di un nutrito ceto politico, di orientamento moderato e di estrazione alto-borghese e di un importante gruppo di potere, incentrato sul quotidiano locale "Gazzetta del Sud", con proiezioni importanti nell'università ed attivo in molti settori, fino a configurare un vero e proprio blocco sociale con rilevanti funzioni, che saranno indicate brevemente nel paragrafo "la ragnatela e gli strumenti della socializzazione conservatrice - cenni di antropologia culturale della classe dirigente messinese.





B. Piccola e media impresa

Si tratta in genere di piccole imprese a conduzione familiare che operano in settori con bassa o bassissima innovazione tecnologica. Il settore più rilevante è quello delle imprese edilizie. E' interessante analizzarne i caratteri essenziali per ricostruire uno spaccato importante della società messinese.

Il primo aspetto che ci interessa è l'accesso all'attività economica. Le risposte evidenziano chiaramente che la famiglia ha un ruolo determinante in questo senso.

"L'azienda fu fondata nel 1866 dal nonno di mio padre. Successivamente venne ereditata dal nonno e poi da mio padre" (U.M., poligrafica, 32 anni).

"Prima della mia attività imprenditoriale non ho avuto alcuna esperienza di lavoro, nel senso che prima di iniziare la mia attività ho avuto solo il tempo di emettere un vagito. Sono stato inserito immediatamente in ruoli dirigenziali nella misura in cui la figura accentratrice di mio padre consentiva una qualifica di questo genere" (S.F., birra, 41 anni).

Le risposte sono generalmente simili tra loro: chi nasce da una famiglia di imprenditori messinesi, ha già il destino segnato dalle aspettative paterne:

"Ho sempre vissuto nell'azienda sin da piccolo, perché tra l'altro mi attirava l'ammirazione per questo grande ritratto in piedi che è mio padre" (S. B., dolciaria, 35 anni).

"I miei figli sono cresciuti in questo ambiente, da quando sono piccoli sentono parlare di lamiere, di nastri, di bardelle, ecc.; credo sia naturale che oggi lavorino tutti in azienda [...]" (C. F., [settore] metalmeccanico, 62 anni).

Si possono già delineare alcuni tratti comuni:

1. L'assenza o quasi di mobilità sociale: gli imprenditori messinesi sono in genere figli di imprenditori. Le differenze riguardano le generazioni: alcune ditte, le più antiche, sono state fondate a metà Ottocento; le più recenti sono figlie del boom economico degli anni '60. Rarissime le imprese nate successivamente: si tratta in genere di dipendenti che imparano il mestiere e si mettono in proprio, oppure lavorano per conto terzi: spesso sono aziende che non riescono a trovare una propria stabilità. Dopo la crisi, all'inizio degli anni '90, del connubio politica-impresa, le possibilità di sopravvivenza sul mercato si sono ulteriormente ridotte.

2. Il profondo conservatorismo degli imprenditori messinesi, che affonda direttamente nella cultura siciliana: l'azienda come roba della famiglia, i figli come prolungamento di sé stessi.

3. La presenza predominante di maschi. Il trasferimento dell'azienda si configura generalmente come un passaggio dal padre al figlio, un contrasto tra le aspirazioni individuali del giovane e il desiderio paterno del prolungamento di sé.

Soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, viene riconosciuto il valore del titolo di studio: i figli non entrano più nell'azienda, non iniziano subito a lavorare ma sono inseriti nella scuola pubblica: il "pezzo di carta" può sempre servire, il "padre-padrone" cede una parte della sua autorità allo Stato.

La struttura familiare è riprodotta - almeno nelle aspirazioni - anche nel secondo aspetto che andiamo ad analizzare, ovvero il rapporto tra capitale e lavoro. Più propriamente, bisogna parlare del rapporto tra "il principale" e "i dipendenti".

Molti piccoli imprenditori messinesi sono soddisfatti delle piccole dimensioni della propria azienda, che permettono la riproduzione della struttura familiare e del rapporto padre/figli che, abbiamo visto, accompagna l'imprenditore fin dal suo ingresso in azienda.

"In questa piccola azienda il rapporto operai / capitale investito è più piccolo della grande, e poi la piccola azienda è più controllabile" [P.D'A., apparecchiature per ristorante, 53 anni]

"Le piccole aziende sono più produttive ed inoltre il rapporto è più familiare, non distaccato e gerarchico come nelle grandi aziende [...] Nelle grande aziende il rapporto è più umano, sempre che esista la capacità dell'imprenditore di plasmare gli operai" [corsivi miei] [G.C., banchi frigoriferi, 42 anni]

E' inconcepibile che i figli si ribellino al padre, che si sacrifica per loro e per loro lavora. Il padre-imprenditore aspira quindi al modello familiare, ad una struttura basata sulla figura paterna che controlla la situazione garantendosi la tranquillità e la possibilità di agire come meglio crede. Una struttura così non può che essere di dimensioni ridotte:

"Più crescono le dimensioni dell'azienda, più aumentano le difficoltà: l'assenteismo, la legge sugli invalidi, gli apprendisti, la violenza in fabbrica, gli scioperi, etc." [A.P., settore metalmeccanico, 66 anni]

"Io non amplierei le dimensioni dell'azienda, casomai ne formerei due di aziende, eliminerei così il conflitto sociale, gli scioperi, controllerei meglio la situazione..." [U.T., impianti termici, 41 anni]

"[Non abbiamo mai esportato] nonostante avessimo avuto richieste da alcuni paesi quali ad esempio l'Algeria [perché] dovrei ampliare l'azienda, aumentare il numero degli operai, con tutte le conseguenze che questo comporta... lei capisce che con 20 operai mi spunterebbe in fabbrica la commissione interna..." [M.V., specchi, 42 anni]

Emerge una totale incomprensione delle istanze del movimento operaio, così come dei diritti conquistati negli ultimi decenni (viene persino contestata la legge sugli invalidi !). Sembra assente nell'imprenditoria messinese qualsiasi istanza (anche solo vagamente) socialdemocratica.

"La crisi la deve pagare il proletariato, i pensionati, ecc., a me se mi tolgono un milione su cento non concludono niente, perché io non determino l'inflazione" [V. C., materiali per l'edilizia, 60 anni]

Il rapporto con la politica è un altro nodo fondamentale: gli imprenditori si mostrano in generale sintonia col senso comune che disprezza i politici (e finisce col disprezzare la politica stessa), fermo restando il rapporto strumentale di uso dei flussi di denaro pubblici - e di conseguenza la necessità di stabilire rapporti privilegiati coi disprezzati politici - perché è così che funziona...

"Le difficoltà consistono nelle scelte sbagliate e nell'ignoranza della nostra classe politica locale [...] non esiste niente, solo clientelismo politico" [A.M., prodotti plastici, 58 anni]

Ma il disprezzo non si accompagna certo alla distanza, anzi...

"...ho utilizzato da tutti e due gli enti [Cassa per il Mezzogiorno ed Irfis]... sia per il finanziamento a credito agevolato che per quello a fondo perduto per formazione ad ampliamento dello stabilimento... difficoltà enormi per il finanziamento dalla Cassa, troppe pratiche e tempi molto lunghi, lei pensi che io li ho ottenuti dopo tre anni e solo perché alla fine mi sono fatto raccomandare da un politico" [G.B., infissi metallici, 52 anni]

"Ma alla Cassa [per il Mezzogiorno] volevano il certificato [anti-inquinamento] a tutti i costi e io mi sono dovuto impegnare a trovare una via d'uscita, ci sono riuscito interessando delle persone ed ottenendo una serie di piccoli certificati che mi hanno permesso di aggirare l'ostacolo. Ora le voglio dire questo: se la soluzione c'era avrebbero dovuto dirmelo alla Cassa stessa, così si fa assistenza alle imprese, non alimentando il clientelismo..." [G.C.,cit.].

"Noi abbiamo oggi un ministro, C., che è mio carissimo amico, io ancora non gli ho chiesto niente, ma chiederò, chiederò certamente... ma intanto il tempo passa e può darsi che C. passi ad un altro ministero o non sarà più ministro" [A.N., rettifica di motori, 58 anni]

"Vede, [la Cassa] è una bella istituzione quando funziona, io non ho mai avuto problemi perché ho sempre ottenuto la via giusta per ottenere i finanziamenti; altrimenti, le cose non vanno" [A.M., cit.]

"...e tenga conto che io sono amico del ministro C., quindi in questo momento non dovrei avere problemi [rispetto alla Cassa]" [A.M., cit.]

Del tutto tipica la schizofrenia rispetto al politico: A.M. disprezza il clientelismo e i politici ignoranti ma vanta l'amicizia col ministro, che utilizza strumentalmente per ottenere i finanziamenti che sono la linfa della sua azienda.

D'altra parte, l'unica alternativa che si offre all'assistenza statale è il darwinismo:

"Le aziende non possono vivere con le stampelle: se devono fallire, devono fallire" [F.D'A, oggetti in argento, 27 anni]





C. Ceti medi

Il cuore della città, la figura predominante è l'esponente dei ceti medi: impiegati del settore statale e parastatale, piccoli e medi esercizi commerciali.

E' da ricordare il ruolo di settore-spugna dell'impiego statale, capace di assicurare il posto anche al di là delle effettive esigenze di personale degli enti pubblici; la possibilità di accedere ai consumi degli impiegati statali, che così trasferiscono parte dei loro redditi ai negozianti, i quali a loro volta riescono ad incamerare redditi sufficienti; le possibilità di mobilità sociale offerte ai figli dei ceti medi, in particolare attraverso l'accesso alla scuola pubblica ed ad un titolo di studio "spendibile" sul mercato del lavoro e dell'accesso alle professioni; la creazione di una vasta area di consenso per le forze moderate e conservatrici, cioè quelle in grado di assicurare la riproduzione di questo sistema; infine, i rischi di marginalizzazione e proletarizzazione per i settori medi meno garantiti, attaccati dalla riduzione del personale dello Stato e, per ciò che riguarda i piccoli negozianti, dalla rapida espansione della grande distribuzione.

Si tratta evidentemente di processi in grado di ridisegnare la struttura stessa della società messinese.





D. Marginali

Vediamo adesso alcune rapide considerazioni sul rapporto tra classi dal punto di vista dei ceti marginali.

Vediamo per esempio come il rapporto imprenditore-dipendente è visto 'dal basso'.

"Principale" è il termine con cui i dipendenti designano generalmente l'imprenditore: il termine indica quindi la persona più importante della ditta. Non è il proprietario, perché storicamente non esiste un legame stretto tra la proprietà e la presenza come figura dominante sul luogo di lavoro: evidentemente è ancora vivo il ricordo dell'assenteismo dell'aristocrazia e di parte della borghesia meridionale. Imprenditore è termine poco diffuso, troppo continentale, estraneo. Indica l'intraprendenza e il "rischio": concetti divulgati dalla retorica liberale ma che non si sono concretizzati quasi mai al sud.

Padrone, infine, implica - con la sua connotazione fortemente negativa - la rottura della solidarietà verticale: un elemento quasi del tutto assente nella realtà messinese.

Rispetto allo Stato ed alla dimensione pubblica, l'atteggiamento più diffuso è il seguente:

richieste
tutto (Stato onnipotente e padre)

giudizio
negativo fino al disprezzo


Questo tipo di atteggiamento è trans-classista: come abbiamo visto, gli imprenditori pretendono finanziamenti, crediti agevolati e servizi dalla mano pubblica (e poco importa se provenienti dalla Cassa del Mezzogiorno oppure se assumono la veste di "sostegno alla creazione di un tessuto industriale": la differenza è solo formale, l'esigenza è identica).

Per i ceti subalterni, lo Stato deve dare lavoro, creare posti di lavoro, fornire gli strumenti indispensabili alla sopravvivenza ed anche a consumi che vadano oltre quelli di stretta necessità.

Ma il giudizio nei confronti dei politici è sempre negativo. E' un giudizio schizofrenico (uso il termine in senso descrittivo e assolutamente non in senso clinico): qualsiasi cosa faccia il politico è sempre ladro - anche se chi pronuncia il giudizio si avvale delle violazioni delle legalità o le commette egli stesso - e incompetente, anche se è stato eletto dagli stessi che poi lo giudicano.

Chiaramente, i politici (attenzione: non il singolo in carne ed ossa, a cui occorre chiedere il favore, ma una entità indistinta) hanno una precisa funzione in una società come quella messinese: quella di capro espiatorio della "coscienza infelice" della città.

Perché infelice ? L'imprenditore aspira al libero mercato - una autentica ossessione degli ultimi anni - e invece si ritrova a dipendere dal flusso del pubblico denaro.

Chi ha un lavoro in virtù di un legame clientelare entra in crisi di identità per il contrasto coi valori socialmente condivisi improntati alla meritocrazia e comunque si trova in una situazione di precarietà e dipendenza.





La ragnatela e gli strumenti della socializzazione conservatrice - cenni di antropologia culturale della classe dirigente messinese

Come riesce a riprodursi una società sostanzialmente precaria ed in "crisi permanente" ?

Come riesce a mantenere l'assenza di conflitto sociale e la presenza di un buon senso piccolo borghese che suggerisce di coltivare il proprio orticello, rispettare le gerarchie ed abbandonarsi ad un pessimismo che diventa fatalismo ?

Le risposte possibili sono tante: quella classica, di tipo storico, ricorda il ruolo devastante dei terremoti ed anche l'assenza, nel passato di Messina, dei movimenti di lotta contadina che in altre zone della Sicilia sono stati presenti.

In precedenza abbiamo azzardato risposte di tipo socio-politico ed economico. In particolare va richiamato il ruolo sociale di logge massoniche e club service (entrambi ultra-presenti a Messina, per una lunga tradizione storica) ed il loro effetto conservatore sulla società (v. il paragrafo 7.2.2 "Il ruolo sociale della massoneria").

Tra l'altro, la straripante presenza delle logge ed il tipo di conduzione dell'attività giudiziaria a Messina ci portano ad una domanda inquietante: esiste una legge uguale (anche solo formalmente) per tutti oppure c'è una doppia legalità, che differenzia i trattamenti ed esclude dall'applicazione delle norme e dalle sanzioni i membri dell'establishment organizzati in un reticolo di club, logge, reti parentali e di amicizia ?

Prendiamo ora in considerazione gli strumenti di socializzazione, in questo caso i mass media ed in particolare il ruolo che il quotidiano locale "Gazzetta del Sud" assume nella realtà messinese.

Per prima cosa, il modello di informazione prevalente è unidirezionale: dall'emittente il messaggio arriva al ricevente: pochissimo spazio alle lettere o ai fax dei lettori, le decisioni sulla linea editoriale sono sempre calate dall'alto (nessuna partecipazione azionaria dei lettori alla proprietà).

Generalmente, la "Gazzetta" si occupa di cronaca locale e di informazione generale. Nel primo caso ha una rete di corrispondenti da ogni centro interessato: il corrispondente, spesso, assume un potere autonomo e diventa una specie di notabile locale, in particolare nei centri più piccoli.

Per le pagine a carattere nazionale, l'informazione è spesso strutturata intorno a campagne di stampa, gestite attraverso editoriali in serie e titoli 'gridati': la campagna contro i pentiti, quella contro i giudici, ecc.

Se la cronaca locale dà ancora informazioni valide per il loro valore d'uso (nel senso che costituiscono spesso l'unico modo di sapere cosa succede intorno), le campagne di stampa assegnano all'informazione un valore di scambio: in questo caso, il quotidiano si comporta infatti come megafono del centro di potere di riferimento: per esemplificare, possiamo riferirci alla Dc (e soprattutto al suo sistema di potere) che negli anni passati ha costituito un vero e proprio regime (e, come tutti i regimi, aveva i suoi strumenti di propaganda).

Naturalmente, la credibilità acquisita come unico mezzo d'informazione locale si riflette nelle campagne di stampa: i mass media hanno affiancato e più spesso sostituito la rete informale della comunicazione locale di tipo tradizionale (la piazza, il vicinato, il circolo, il salotto), assumendone la funzione.

Il prezzo pagato al processo di modernizzazione ha portato ad un monopolio dell'informazione locale ed ad un suo possibile uso strumentale.

La grande diffusione del quotidiano spiega il suo potere: si pensi che il quotidiano viene acquistato da uno ma è letto (o anche solo sfogliato) da molti; è un elemento che appartiene alla vita quotidiana di tutti - o quasi - i membri delle comunità a cui si rivolge.

Attraverso l'analisi degli articoli e degli editoriali, emerge che ci si rivolge ad un modello antropologico piccolo-borghese, maschilista e bigotto, chiuso e xenofobo.

Si tratta di un modello dominante in città: da un lato il messinese conservatore acquista la Gazzetta perché si rispecchia in quel modello. D'altro canto, la continua proposizione di quel modello svolge una funzione di socializzazione di massa, "confermando" - per così dire - la tipologia sociale dominante.

E' appena il caso di accennare al peso ed all'importanza dei mass media nella società contemporanea: essi contribuiscono a produrre strutture di esperienza, cioè "prospettive culturali generali all'interno delle quali i membri delle società moderne interpretano e organizzano l'informazione". Strutturano inoltre "i modi con cui gli individui interpretano il mondo sociale e reagiscono ad esso, aiutandoli a ordinare l'esperienza" [Giddens 1991, 380].

Il gruppo di potere "Gazzetta" - "Fondazione Bonino Pulejo" è la versione moderna del circolo dei notabili, quello in cui nel recente passato sedevano i "pezzi grossi" della comunità.

Le sfilate della FBP (in particolare le cerimonie di consegna delle borse di studio) sono lo specchio di questa tradizione che continua, sospesa tra cosmopolitismo (il segretario dell'Onu premiato a Messina) e provincialismo (le cerimonie come 'festa' per un gruppo di amici).

Ed anche un'analisi semiologica della cerimonia porta a vedere una esibizione di potere: la Fondazione organizza la consegna delle borse in luoghi pubblici (il Teatro cittadino, l'Aula magna dell'Università) che dovrebbero essere preclusi a quello che in fin dei conti è pur sempre un soggetto privato; le borse sono consegnate da politici di livello nazionale ed internazionale, da esponenti della cultura, quindi dal sindaco (potere politico locale), dal vescovo (che invece è simbolo del potere religioso), dal prefetto (il rappresentante del governo).

Talvolta nelle parole, ma ancora di più nei gesti, si sottolinea che i presenti sono legati tra loro: una esibizione di potere, appunto, e quindi di prestigio.

Evidentemente, l'ideologia prevalente è quella amico/nemico: i contrari al Ponte, per esempio, sono selvaggi che "volentieri tornerebbero allo stato brado della preistoria" [Gaz, 9 ottobre 94].

Al contrario, gli amici come Francesco Paolo Fulci, ambasciatore italiano all'Onu, sono eroi straordinari:

"Fulci ha creato dal niente quella che i francesi hanno definito 'la macchina da guerra italiana', e pian piano ha ricostruito per il nostro paese una credibilità che era molto bassa. E' riuscito ad ogni votazione all'Onu ad imporre in posti di prestigio, con voti sempre crescenti, un candidato italiano. [...]

Molti di più sono quelli che però pensano non sia giusto mandare in pensione una 'leggenda' [Fulci ha raggiunto i limiti di età] e comunque rischiare che il 'periodo di ambientamento' del nuovo ambasciatore permetta ai nostri potenti avversari di mettere a segno un colpo che potrebbe rivelarsi 'mortale'.

La storia, del resto, osservano, darebbe un giudizio molto severo sull'attuale classe politica e diplomatica, se si consentisse, per una questione anagrafica (?), la possibile emarginazione dell'Italia dalla scena politica internazionale. E' giusto, quindi, correre questo rischio?"

Il quotidiano, oltre ad essere un organo di informazione (e quindi un centro di potere 'ideologico'), è un centro di potere: politico in quanto opera come lobby; economico, in quanto impresa o promotrice di attività d'impresa (v. per es. la società "Stretto di Messina", responsabile finora della progettazione del Ponte).

Vediamo adesso l'aspetto che più ci interessa, ovvero la rappresentazione della mafia (ed in particolare, ovviamente, della mafia messinese) sul principale quotidiano cittadino. Se ne ricaveranno utilissime considerazioni di ordine antropologico e sociologico.





Mafia: la rappresentazione sul quotidiano locale

"E poi guarda questo giornale, questa piccola notizia - Negli omicidi di S. una pista è stata trascurata dai carabinieri...

Il capitano Bellodi leggeva della pista che, secondo il giornale siciliano, un giornale di solito prudentissimo e alieno dal muovere censure sia pure minime alle forze dell'ordine, aveva trascurato. La pista passionale, naturalmente" [Sciascia 1961].

Era il 1961 quando Leonardo Sciascia scriveva questo brano, tratto da "Il giorno della civetta". Trentaquattro anni dopo la "Gazzetta del Sud" ha fatto rivivere la situazione immaginata dallo scrittore di Racalmuto.

L'8 gennaio 1993 Giuseppe Alfano fu ucciso a Barcellona, in provincia di Messina. Più di due anni dopo l'omicidio, si arriva al processo.

La tesi dell'accusa è semplice: Alfano è stato ucciso perché non continuasse a scrivere dell'Aias di Milazzo. L'ipotesi non è stata confermata in primo grado, ma comunque nessuno nega la matrice mafiosa dell'omicidio. Ma, il giorno del processo, la Gazzetta titola, nelle pagine di cronaca:

"Donne e debiti di gioco: due piste non seguite ?" [Gaz 13 maggio 95, 5]

Nove colonne, un titolo a tutta pagina: si specifica nell'occhiello che è la tesi dei difensori al processo, e il catenaccio dice che "la mattina del delitto, [Alfano] si sarebbe recato a Messina per ottenere un prestito di sei milioni".

Scipione De Leonardis, vice commissario a Barcellona nel periodo dell'omicidio, ha affermato in aula che Alfano fu ritrovato con poco più di un milione in tasca e con un assegno, ha confermato che Alfano aveva debiti di gioco, "ma di lievissima entità, dell'ordine di qualche centinaio di migliaia di lire".

Sulla seconda ipotesi, sentiamo ancora De Leonardis:

"Non abbiamo trascurato alcuna pista, anzi le abbiamo perseguite tutte, anche quelle che riguardavano la vita privata dell'ucciso, proprio per poterle eventualmente escludere. Questa delle donne era infatti la voce più ricorrente, non si può dire se provenisse da un ambiente piuttosto che da un altro; era vox populi. Forse aveva qualche relazione extra-coniugale, ma con minorenni non ci risulta. In ogni caso non era nulla di eclatante, per questo l'abbiamo abbandonata" [Gaz, ibidem].



Riguardo gli stereotipi, anche questi sono ben presenti. Spicca tra tutti quello più classico: la vecchia mafia onorata. Ma anche il luogo comune per cui si tratterebbe di 'pochi delinquenti senza scrupoli' ricorre spesso. Dopo la strage di via D'Amelio, esce in prima pagina un editoriale, in cui tra l'altro si afferma: :

"Come siciliano mi vergogno, e come me si vergognano in tanti. Faccio parte di un popolo tanto ricco di antiche civiltà e pure ridotto all'infamia per colpa di pochi spregiudicati che per continuare ad arricchirsi sul malaffare hanno perduto qualsiasi senso dell'onore. Sentimento che un tempo era vanto della mafia che teneva gelosamente a questa reputazione e che ora ha gettato nel fango, anzi nella fogna, anche questa antica prerogativa" [Gaz 20 luglio 92, 1].

Viene anche tracciato un curioso modello ideale di magistrato:

"La sentenza [sul caso Cerminara] traccia anche la strada maestra al giudice antieroe, al magistrato che svolge il lavoro con scrupolo, con coscienza, con umiltà, che non compare sui giornali, che quando ha risposto alla sua coscienza si ritiene in pace col mondo, che non ha paura di buttare a mare anni di indagini, che non si sente vincolato a schieramenti e prese di posizione, che ascolta il pro e il contro, che la sera torna a casa con la propria auto e può dormire con la porta aperta e senza gendarmi davanti all'uscio [corsivo mio].

Solo con la prevalenza di questo tipo di magistrato (che è in larghissima maggioranza anche se non sembra, proprio per la sua schiva natura) si può sperare in un ritorno alla normalità, alla legge" [Gaz 20 ottobre 95, 2].

La polemica più ricorrente è quella contro i pentiti. Si può parlare di una vera e propria campagna di stampa, che va ben oltre gli esempi qui riprodotti:

"Le recenti vicende giudiziarie che hanno investito magistrati messinesi e reggini oltre a centinaia tra politici, professionisti, imprenditori, mafiosi, vicende nate dalle solite gole profonde, fior di mascalzoni prima di battersi il petto a pagamento - e forse anche dopo [...]" [Gaz 23 luglio 95, 2].

"[Molti magistrati] che hanno osato navigare seguendo la rotta della coscienza [...] dall'oggi al domani, si sono visti accusare da pentiti prezzolati. [...]

Quale prova è mai, quella acquistata nella bottega del crimine con l'impunità per i delitti commessi, con la protezione e con altri compensi?" [Gaz 20 ottobre 95, 2].

Si tratta di una polemica di carattere giuridico o di un problema - diciamo così - di natura culturale ?

Dopo che il pentito Saverio Morabito aveva accusato il giornalista Antonio Delfino (fratello del generale dei carabinieri) di essere il mandante dell'omicidio dell'ex sindaco di Platì (Domenico De Maio) e di essere legato alle cosche della Locride, la Gazzetta ospita un commento dell'accusato, che anziché difendersi dalle accuse si limita a descrivere Morabito come un traditore:

"Cosiddetti pentiti e maldicenza [titolo] - Ma chi è il mio Giuda ? [corsivo mio; segue descrizione dei crimini del Giuda] Questo è il mio Giuda. [...]

Ma Morabito è sicuro sotto ali protettive. E' impazzito soltanto nel sentire il tintinnio dei trenta denari. Era già un predestinato che da piccolo aveva rinnegato il padre per fare scorrerie armate con il fratello. Ha l'iscariotismo nel sangue" [Gaz 3 novembre 93, 2].

Il sistema mafioso in Sicilia ha potuto godere di vaste complicità, certo non perseguibili in un Tribunale ma sociologicamente (ed eticamente) assai rilevanti. Il caso catanese è esemplare. Dopo aver negato a lungo l'esistenza stessa della mafia etnea (il quotidiano "La Sicilia" parlò di Santapaola definendolo "un noto imprenditore"), buona parte degli intellettuali e dei mass media siciliani sono passati alla difesa del "settore borghese" del sistema mafioso.

Vediamo un dei tanti esempi possibili:

"[...] Quando la città era invidiata perché cresceva, perché il benessere era sotto gli occhi di tutti, sì, allora l'economia era florida. La disoccupazione era solo quella fisiologica, non mancando il lavoro la delinquenza era limitata agli 'intrallazzisti' o a pochi borsaioli.

Erano anni in cui l'edilizia trainava ogni settore, gli anni dei palazzinari che edificavano in ogni angolo. Erano anni in cui i gruppi industriali come Costanzo, Rendo, Graci, Finocchiaro o Parasiliti incrementavano il loro fatturato e contestualmente reclutavano mano d'opera e professionisti.

Da sempre queste aziende hanno rappresentato i datori di lavoro di questa città, riuscendo ad avere organici fino a 20mila unità.

La mafia, allora, era lontana o, se era vicina, non la si vedeva, o, se vogliamo, si faceva finta di non vederla. Comunque Catania godeva del benessere. [...]

Gli appalti venivano quasi sempre affidati ai 'datori di lavoro catanesi', ossia a quelle aziende che qui operavano. E anche tra loro c'era la pax dovuta alle eque spartizioni" [corsivi miei; suppl. a Gaz 9 giugno 92, 143].

Ma ad un certo punto l'incanto si ruppe e gli imprenditori etnei "cercarono impegni altrove". Cosa era accaduto ?

"[La colpa fu] di iniziative trasversali che a tutti i costi dovevano criminalizzare l'imprenditoria locale.

[Ma venne ] una sentenza 'storica' in cui, oltre ad assolvere gli imprenditori, [si] sostenne che la loro non era contiguità con la mafia ma una sorta di soccombenza obbligata [il famoso 'stato di necessità'] al potere mafioso che, anche qui a Catania, comanda più del potere legale" [ibidem].

Se la mafia è composta da pochi delinquenti che hanno smarrito il senso dell'onore, la massoneria è - a seconda dei casi - roba da ridere o nobile attività:

"Anche Totò e Ollio furono tra gli affiliati [titolo] - Vedere quel simpaticone di 'Ollio' indossare i paramenti massonici nel gesto automatico di accarezzarsi la cravatta può richiamare alla mente le mille comiche delle quali è stato protagonista sullo schermo. Mentre una prova iniziatica da superare, da parte degli adepti, potrebbe essere stata quella di non scoppiare a ridere nel vedere l'inconfondibile figura di Totò nelle vesti di maestro venerabile di rito massonico" [Gaz 11 luglio 93, 26].

Sopra questa simpatica scheda c'è la foto di Cordova ed un articolo sull'inchiesta avviata a Palmi. Si era infatti nel periodo della maxi-indagine sulle logge massoniche, quella riguardante:

- traffici di titoli rubati, che si trasformavano in finanziamenti in nero ai partiti di governo; con la regia di Gelli, Andreotti ed esponenti del Vaticano; ramificazioni in Belgio e Romania;

- traffici di armi con l'Est europeo (dai kalashnikov ai bazooka fino alle componenti per armi nucleari):

- investimenti (specie in immobili) in Italia ed all'estero (con la Romania in testa);

- traffici di rifiuti tossici, con il coinvolgimento di alcuni piduisti (tra cui Guido Garelli, uomo del Sismi).



















11. capitolo > Il sistema mafioso





"[La mafia] tallona lo stato italiano,

la società dello sviluppo italiano,

perché in un certo senso ne costituisce

l'altra faccia,

la faccia della cattiva coscienza"

Luigi Lombardi Satriani















Analisi strutturale



Nelle zone in cui è presente da lungo tempo una forte criminalità organizzata, si forma in genere un sistema complesso in cui l'elemento criminale viene di fatto legittimato ed inserito nel contesto sociale. Si crea così una vera e propria struttura sociale, divisa in classi e con propri meccanismi:

1. Una "borghesia mafiosa" composta da soggetti delle classi alte che utilizzano strumentalmente le attività dei gruppi criminali (politici che utilizzano la raccolta dei voti, imprenditori che usufruiscono del denaro 'sporco' e dei servizi offerti dalla cosca, etc.) e da soggetti delle classi inferiori ascesi socialmente grazie alle attività illegali (i boss).

2. Un ceto intermedio e precario, sospeso tra l'arricchimento facile e l'ascesa sociale ed i rischi per la vita (guerre di mafia, conflitti con le 'forze dell'ordine') e per la propria libertà (carcerazione).

3. Un "esercito criminale di riserva" costituito dalle masse diseredate delle periferie.

In questa parte saranno descritte queste tre aree, mentre nella successiva saranno delineati i rapporti tra i vari settori ed i meccanismi di funzionamento del sistema.





A. La borghesia mafiosa

Appartengono a questo settore sociale:

1. gli uomini politici comunemente definiti 'collusi', coloro cioè che hanno attivato un rapporto di scambio con i clan; questo caso sarà trattato nel paragrafo "Politica - Mafia";

2. gli imprenditori complici, coloro cioè che - così come i politici - trattano il clan da agenzia di servizi e ne acquistano le prestazioni. Anche in questo caso si rimanda al paragrafo specifico, in cui si tratterà di "Mafia e Imprenditoria". Da notare che in quest'area i confini tra il ruolo della vittima e quello del complice - anche per l'interesse dei collusi a presentarsi come vittime ed all'attitudine dei media e di parte della magistratura di avallare tale tesi - sono abbastanza flebili. Si parla in questo caso di 'zona grigia', in cui le responsabilità penali sono molto confuse ma il ruolo 'sociologico' è ben chiaro.

3. i magistrati corrotti, al servizio delle cosche in cambio di denaro o favori. Anche questo settore verrà analizzato nel paragrafo dedicato ai rapporti tra "Mafia e Magistratura";

4. i professionisti che entrano per la natura del loro lavoro in contatto con le cosche. Possiamo distinguere tra quelli che sono in contatto coi mafiosi in maniera diretta e volontaria (avvocati), e la cui attività va ben oltre i doveri professionali.

Si parla in questi casi di "colletti bianchi" al servizio dei clan, veri e propri consiglieri, che forniscono un aiuto indispensabile in materia giuridica o economica, per esempio dando indicazioni per il reinvestimento degli illeciti;

5. i professionisti che si trovano loro malgrado ad avere a che fare con i clan (ingegneri, funzionari comunali) e che con le loro decisioni favoriscono i criminali in cambio di denaro o favori.

Come detto, i singoli casi (con riferimento al passato recente o all'attualità) saranno trattati nei paragrafi seguenti.

Vediamo adesso un breve profilo storico della borghesia mafiosa espressa in passato dall'area messinese.





Il banchiere di Patti e i "Salvo" dello Stretto.

Michele Sindona, banchiere, massone e mafioso nativo di Patti, costituì a Messina uno dei perni del suo sistema finanziario, che comprendeva tra l'altro le milanesi Banca Privata Finanziaria e Banca Centrale di Credito, la statunitense Franklin National Bank ed appunto la Banca di Messina.

Durante le assemblee degli azionisti dell'istituto, in via dei Verdi (nel centro della città), il prestigiatore Sindona aumentava i capitali e distribuiva utili ai suoi soci. Ma Messina dormiva tranquilla ed in città la mafia non era neanche nominata.

Questo sistema era collegato ad una galassia di istituti sparsi per il mondo, tra cui la Finterbank, la New Bank, la Hambros Bank Limited di Londra e soprattutto l'Istituto Opere Religiose (IOR), la banca del Vaticano [Santino 1994, 197].

Il sistema Sindona finanziava regolarmente la Democrazia Cristiana ed in particolare la corrente andreottiana. Lo stesso Andreotti definì Sindona "il salvatore della lira italiana". Il banchiere di Patti era strettamente collegato alla "Continental Illinois National Bank", l'istituto Usa del complesso militare-industriale, degli ambienti reazionari e della Cia.

Nel 1979 Sindona giunge clandestinamente in Sicilia con il sostegno logistico di Cosa Nostra e della massoneria, inscenando un finto sequestro: in realtà è ospite a Palermo del boss Spatola.

Sono le logge masso-mafiose dell'obbedienza Camea a gestire la venuta di Sindona, le cui intenzioni arrivavano ad un possibile colpo di stato con separazione della Sicilia dall'Italia.

Nella Camea figuravano uomini "strategici" per gli affari ed i progetti di Sindona: a Palermo, nella loggia Orion, c'era Angelo Siino, gestore per i corleonesi di buona parte degli appalti pubblici siciliani.

A Messina, divisi in 4 logge, c'erano 42 "fratelli", ognuno con un ruolo di rilievo: politici, imprenditori, militari, comandanti della navi traghetto e ufficiali navali, docenti e studenti - questi ultimi in gran numero - dell'università. "Una fitta rete massonica in grado di esercitare un forte controllo sugli Enti locali, Istituti autonomi (Iacp) e sullo Stretto di Messina, corridoio di traffici strategici su cui vigilava la prima cellula di Gladio costituita in Sicilia".

Riassumendo, la vicenda Sindona sta ad indicare:

l'intreccio tra mafia; massoneria; politici del fronte moderato italiano e statunitense; finanza siciliana, italiana ed internazionale indica una comunanza di obiettivi tra queste entità: il controllo con qualunque mezzo degli equilibri politici e l'accumulazione di denaro (anche questa con qualunque mezzo).
2. Il braccio militare della mafia, i servizi segreti italiani e statunitensi, settori del mondo militare, l'organizzazione Gladio, i gruppi neofascisti appaiono gli strumenti di questa strategia.

3. L'area messinese si inserisce perfettamente in questo quadro, sia dal punto di vista del controllo del territorio e dell'eliminazione di qualunque prospettiva di cambiamento politico, sia per quanto riguarda l'affarismo e l'accumulazione di denaro. Il caso dell'Università (v. infra) è realmente esemplare in questo senso. Ed è ovvio ipotizzare ampie complicità, quando non una vera e propria comunanza di interessi ed ideali (il filo-atlantismo, l'anticomunismo "non-convenzionale"), tra la borghesia messinese ed il 'sistema Sindona'.

Gli anni '80 si caratterizzano per l'intreccio tra la mafia messinese e le organizzazioni criminali delle zone limitrofe. Non solo a livello 'militare', ma anche a livello politico e imprenditoriale.

Solo per fare qualche esempio, nel 1983 la costruzione del palazzo messinese dei telefoni veniva assegnato a Finocchiaro. Nel 1984 Costanzo e Rendo vincono l'appalto per le nuove strutture dell'Università. Graci si assicura la ristrutturazione del campo sportivo. Gli ospedali di Lipari e Taormina sono un affare in mano a Costanzo [Sicil giugno '84, 29]. Rendo si aggiudica alcuni padiglioni del Policlino universitario, Costanzo i lotti dell'autostrada e della tangenziale, i Cassina la rete fognaria.

Poco dopo è il tempo dei consorzi e della spartizione 'scientifica': le grande imprese nazionali (gruppo Fiat; Ferruzzi; Iri; gruppo delle "cooperative rosse") si consorziano con le maggiori imprese regionali (Rendo, etc.), mentre i consorzi locali riproducono la spartizione nazionale.

Nascono cosi gli appalti degli ulteriori padiglioni del Policlinico, di altre Facoltà universitarie, i raddoppi ferroviari e lo stadio di S. Filippo (queste ultime due opere, al '97, risultano ancora incomplete).

Non è azzardato ipotizzare che l'assegnazione di appalti di questo tipo ha implicato una qualche concertazione tra politica, imprese e gruppi criminali legati alle imprese stesse: in seguito approfondiremo ampiamente queste temi.

Messina, in fondo, è "una città anonima ma con solidissimi congegni di potere".

Veniamo adesso ad un altro pezzo importante della borghesia messinese. L'istruttoria del maxiprocesso palermitano, frutto del lavoro di Falcone e degli altri giudici del pool antimafia, ricostruisce nei dettagli i giri di denaro degli esattori Salvo e la loro stessa appartenenza alla mafia.

Nell'impero economico degli imprenditori di Salemi, hanno un ruolo di rilievo i Cambria, finanzieri messinesi soci dei Salvo e consiglieri d'amministrazione nelle loro società.

Negli anni '70 le esattorie appaltate ai Salvo erano 76, dislocate in varie regioni italiane. Negli anni successivi l'impero si espande fino a comprendere aziende agricole, una banca, società informatiche, imprese edilizie, alberghi.

Dalla Chiesa (all'epoca colonnello dei Carabinieri) segnalò alla Commissione antimafia che la SIGERT spa del gruppo Cambria-Salvo andava sottoposta ad indagini per verificare la presenza di fondi extra bilancio usati a scopi di corruttela.

L'alleanza tra le due famiglie era particolarmente stretta: i Cambria erano soci in moltissime società dell'impero Salvo, tra cui la SATRIS (riscossione imposte), la SIGERT (gestione esattorie, con sede legale a Messina, in via S. Cecilia), la SAGAP (gestione appalti pubblici), la SIAP (gestione appalti) ed altre, tutte sequestrate in applicazione della legge antimafia [Santino La Fiura 1990, 288 sgg].

In particolare, Francesco Cambria era direttore della SATRIS ed aveva come autista Giovanni Zanca, "fratello del pericolosissimo Giovanni Zanca", presunto mafioso. L'arresto di Zanca metterà fine al suo lavoro di autista. Inoltre, Cambria aveva regalato una costosa Range Rover a Rosa Buffa, moglie di Carmelo Zanca [CS 1986, 333].

La vicenda delle esattorie è un concentrato di parassitismo e corruzione:

"Causa fondamentale dello strapotere dell'apparato esattoriale siciliano è stato l'esercizio distorto della legislazione tributaria da parte della Regione, a sua volta indubbiamente condizionata dalla spinta potente del formidabile gruppo di pressione di quell'apparato, praticamente nelle mani di poche famiglie (i Salvo, appunto, [...] i Cambria, i Corleo)" [relazione di minoranza della Commissione antimafia, cit. in CS 1986, 346].

"E' ben noto che l'ascesa del gruppo esattoriale Cambria-Salvo affonda le sue radici negli anni '50, quando, fra l'altro, viene approvata la norma regionale concernente la fissazione di un aggio esattoriale superiore di gran lunga a quello medio esistente nel resto d'Italia. In quell'epoca le esattorie erano prevalentemente in mano al gruppo INGIC, mentre la scalata dei Salvo alle esattorie avviene intorno agli anni '60.

Il riconoscimento al gruppo Cambria-Salvo delle esattorie avviene in pieno milazzismo, negli anni '60, un'operazione politica che, come è ampiamente noto, era stata ispirata da forze politiche non omogenee e appoggiata dall'esterno anche da gruppi mafiosi facenti capo a Paolino Bontade. Essendo evidente l'insostenibilità di tale situazione politica in Sicilia, il milazzismo terminò rapidamente, anche se le ferite aperte nel contesto politico non furono poche né di poco conto.

Una di queste fu una sorta di benevolenza nei confronti del gruppo Cambria-Salvo i quali, mercé l'intervento dei referenti politici in cui si riconoscevano, ritirarono il loro appoggio al governo Milazzo [...]" [Calogero Mannino, all'epoca segretario regionale DC, cit. in CS 1986, 346].





B. I boss e la mafia messinese

Si può affermare che la mafia messinese sia nata - come da una incubatrice - nei quartieri periferici. In particolare nelle aree di edilizia popolare, dentro rioni nati e cresciuti senza servizi e centri di aggregazione, strutturalmente predisposti a far nascere disagio e delinquenza.

Il disagio delle periferie - ovviamente - non produce subito mafia ma bande giovanili dedite alle rapine ed ai furti, specie nelle zone di Giostra e di Villaggio Aldisio. Il "pizzo" nasce invece in maniera diversa, essendo prerogativa di alcuni personaggi 'di rispetto', che assicuravano la protezione privata su alcuni esercizi commerciali. Ma a queste figure si sostituiscono presto giovani organizzati in clan, secondo la struttura tipica della cosca criminale.





Il salto di qualità

Il momento decisivo in cui si ha un salto di qualità della criminalità nella città di Messina è la fine degli anni '70. Le bande cessano di essere improvvisate, si organizzano e si danno una struttura, iniziano ad operare nei moderni settori criminali, creano collegamenti con le vicine organizzazioni ben più potenti e con maggiore esperienza: palermitani, catanesi e calabresi.

Ma il segnale più evidente che qualcosa sta cambiando arriva con la prima vera ondata di violenza mafiosa nella città di Messina: omicidi, agguati, ferimenti.

Il primo novembre del '77 viene ucciso un giovane esponente della criminalità, Antonino Timpani, salutato ai funerali da una folla notevole. Negli anni successivi altri personaggi legati alla malavita vengono uccisi: tra il '79 ed il 1981 sono almeno 14. Il 7 gennaio 1981 Elisa Gerace rimane uccisa in un agguato non andato a segno. E' il simbolo di un imbarbarimento progressivo.

La guerra dell''80-'81 vide schierati gli uomini di Gaetano Costa e Domenico Di Blasi contro quelli di Placido Cariolo e Rizzo. Gli scontri vengono bloccati da una serie di arresti, cui seguono i primi processi.

Nel 1979 e nel 1981 vengono istruiti i procedimenti contro i clan di Domenico Cavò e Gaetano Costa: le accuse principali riguardano alcuni omicidi ed estorsioni. Proprio le estorsioni venivano indicate come il fine principale dei gruppi, strutturati rigidamente (per la prima volta veniva ipotizzata la fattispecie di associazione a delinquere) e con riti di iniziazione simili a quelli della 'ndrangheta.

La struttura delle cosche è invece ricalcata sul modello della camorra: bande di delinquenti pre-esistenti vengono inserite nella famiglia, diretta da un capo. La cosca messinese è legata ad un territorio ma non in maniera rigida; a differenza della 'ndrangheta, un clan è composto dall'aggregazione di individui e gruppi, non da un lignaggio familiare. Per esempio, le 'ndrine sono in genere costituite intorno ad una discendenza familiare (Piromalli, Mammoliti, De Stefano) mentre questo fenomeno non si è registrato a Messina. Questo elemento è indice di una criminalità nata in ambiente urbano.

La mancanza di una rigida divisione territoriale, sul modello palermitano, era fonte di conflitti tra i vari gruppi. Una serie di summit tra l'80 e l'81 hanno avuto la funzione di stabilire armistizi e definire confini. L'arrivo del nuovo affare della droga, d'altronde, imponeva maggiore senso di responsabilità per una spartizione degli utili che non penalizzasse nessuno.

Proprio il nuovo affare della droga (dal punto di vista economico) e la legittimazione politica in quanto forza conservatrice (dal punto di vista sociale) sono i due elementi decisivi che determinano il salto di qualità della criminalità messinese.





Università di Messina - decennio '70: salto di qualità e legittimazione

A partire dagli anni '70 una coincidenza di eventi determina un salto di qualità dal punto di vista delle strutture criminali operanti sul territorio messinese. Si ha infatti la compresenza e l'alleanza del neofascismo proveniente da quattro diverse aree (Messina, Barcellona Pozzo di Gotto, Reggio Calabria, Grecia) e della criminalità organizzata ('ndrangheta, mafia barcellonese): un insieme di forze che misero a frutto con attentati ed aggressioni le proprie capacità militari, dando inizio ad una rete di relazioni politiche ed economiche che le legittimeranno come elementi del blocco sociale dominante.

Per descrivere questo momento, occorre raccontare tre diverse storie che confluiscono, come in un romanzo, nella città di Messina ed in particolare nella sua Università, sconvolta da una serie impressionante di atti di violenza.

Alcuni studenti di sinistra distribuiscono tranquillamente volantini, nella facoltà di Lettere. E' l'8 dicembre del 1971. Improvvisamente irrompono i neofascisti con spranghe e catene, l'assalto termina con una decina di feriti. Due anni più tardi, nel 1973, i mafio-fascisti occupano la facoltà di Magistero. Qualche tempo più tardi irrompono con i mitra nella Casa dello Studente. Si tratta delle azioni più gravi, ma minacce aggressioni ed intimidazioni avvenivano quotidianamente. Intere facoltà ed intere zone della città erano presidiate: per chi era conosciuto come 'uno di sinistra', era impossibile attraversare la via Cannizzaro o sostare di fronte alla facoltà di Giurisprudenza. Chi poi si trovava nelle vicinanze della Casa dello studente, rischiava di prendersi un proiettile esploso dai litigiosi occupanti provenienti dalla Calabria.

I protagonisti delle azioni squadristiche e delle violenze erano facilmente identificabili. Ma già da allora vivevano all'interno di una rete protettiva che garantiva l'impunità.



A. I barcellonesi

I principali protagonisti degli attacchi, in particolare dell'assalto a Lettere, erano il barcellonese Saro Cattafi e Pietro Rampulla, da Mistretta.

Si tratta di due personaggi che già allora funzionavano da anello di congiunzione tra gli ambienti criminali e quelli dell'estrema destra (Ordine Nuovo). Successivamente saranno protagonisti di straordinarie carriere nell'ambito della criminalità.

Cattafi iniziò la sua ascesa delinquenziale con frequenti viaggi dalla Sicilia a Milano, un commercio di medicinali che nascondeva traffici di stupefacenti. Secondo il boss Epaminonda, Cattafi gestiva le attività sud-nord per conto del clan Santapaola (oltre ai traffici, anche le attività legate al casinò di Saint Vincent e la gestione dell'autoparco di via Salomone, base operativa per il nord Italia). Sarà iscritto alla massoneria.

E' stato inoltre coinvolto nell'inchiesta sul traffico d'armi 'Arzente isola', condotta dalla procura di Messina. Gli altri protagonisti della vendita degli strumenti di morte erano un impiegato della facoltà messinese di Giurisprudenza ed un trafficante internazionale, il messinese Filippo Battaglia.

Un altro protagonista degli anni '70 messinesi, Pietro Rampulla, è stato accusato dalla procura di Palermo di essere l'artificiere della strage di Capaci. In precedenza è stato uno dei principali esponenti della criminalità in provincia di Messina.



B. I calabresi

Già prima degli anni '70 l'Università di Messina era un luogo d'incontro tra criminali e neo-fascisti, un luogo di socializzazione criminale per gli estremisti di destra e di socializzazione eversiva per i giovani della 'ndrangheta.

Si afferma infatti nell'Operazione Olimpia che, probabilmente, i De Stefano si avvicinarono agli ambienti di destra negli anni in cui frequentavano l'Università di Messina [cfr. OL 1995, vol XVII, parte seconda, 4823 sgg].

Ma successivamente alla rivolta di Reggio, quella del 'boia chi molla', si intrecciarono i rapporti tra i due "Fuan-Msi" di Messina e Reggio, con l'arrivo di mafio-fascisti provenienti dal reggino nelle inedite e poco probabili vesti di studenti universitari. La rete di relazioni e protezioni istituite con i settori "alti" e conservatori della città di Messina ed ovviamente della stessa Università garantirono carriere facili agli "studenti" della 'ndrangheta, creando canali di accumulazione criminale e metodi di mobilità sociale basata sull'illegalità che ancora oggi non si sono interrotti.



C. I greci

Dalla Grecia, vennero gli studenti dell'Esesi, la "Lega degli studenti greci fascisti in Italia", una creatura del regime dei colonnelli nata nell'ambito del rapporto tra la destra italiana e greca: un legame concretizzato tra l'altro con una gita dei fascisti italiani (Giannettini, Delle Chiaie, ...): un viaggio di studio, per imparare quelle che gli esperti militari chiamano le tecniche della 'guerra di bassa intensità' contro i 'rossi'. Le lezioni furono probabilmente messe a frutto, se si pensa che alcuni dei partecipanti alla gita furono successivamente coinvolti nelle indagini sulla strage di Piazza Fontana.

Messina ebbe un ruolo di rilievo all'interno delle strategie conservatrici e violente note come "strategia della tensione". Tra l'altro, era stata scelta dai servizi segreti greci come base operativa per il sud Italia. Gli agenti membri della cellula neonazista "4 agosto" agivano all'interno dell'Università messinese travestiti da studenti.

Ed i soldi Usa per il golpe greco del 1967 transitarono per la Continental Illinois Bank, l'istituto degli ambienti reazionari statunitensi in contatto col finanziere di Patti, il massone-mafioso Michele Sindona.

La connessione tra forze criminali - che vede come scenario l'ateneo messinese - produrrà effetti immediati ed effetti di lungo periodo. Un innesto di forze criminali all'interno di una struttura di grande rilievo sociale, infatti, lascia sempre dei segni importanti e duraturi:

"Particolari collegamenti esistono [...] tra don Stilo e alcuni ambienti amministrativi come l'ospedale di Locri e l'università di Messina. In particolare, presso l'ospedale di Locri operava un medico che è la longa manus di don Stilo; trattasi di Pasquale Cristiano il quale vanta notevoli appoggi presso l'università di Messina, dove si verificava che praticamente regalassero la laurea alle persone sostenute e raccomandate da Don Stilo e dal medico Cristiano..." [Dichiarazione del collaborante Filippo Barreca, 21 gennaio 1993, cit. in OL 1995].

Don Giovanni Stilo, sacerdote di Africo Nuovo, è un autentico crocevia dei poteri criminali siculo-calabri. Dai vari procedimenti giudiziari che lo hanno visto protagonista come imputato, tra cui la stessa operazione Olimpia, si ricavano una serie di appartenenze (alla 'ndrangheta ed a Cosa Nostra) e legami (Democrazia Cristiana, massoneria, servizi segreti) che fanno di don Stilo, a partire dagli anni '70, un elemento di grande spessore criminale.

Tra i suoi numerosi contatti, Totò Riina e Angelo La Barbera, Peppino Piromalli e Antonio Nirta da San Luca, Enzo Cafari e Saverio Mammoliti.

Non stupiscono quindi i collegamenti con una struttura come l'Università di Messina, già resa ampiamente permeabile dal triplice insediamento di criminali e neofascisti di cui si è detto.



L'intera vicenda, in sintesi, ha prodotto tre effetti di straordinario rilievo:

Il salto di qualità dei gruppi criminali in aree come il messinese, dove i clan acquisiscono dal contatto con altri gruppi nuove competenze e stringono nuove forti alleanze.

2. La legittimazione delle forze criminali come strumento per il mantenimento dell'ordine politico-sociale: è significativo che in quegli anni siano entrati nelle logge molti boss, che così sedevano accanto a politici potenti, professionisti affermati, ricchi imprenditori (v. le logge masso-mafiose di Palermo, Trapani, Reggio Calabria descritte nel par. 8.2).

3. I rapporti creati nel decennio '70 e le metodologie acquisite continuano a produrre ancora oggi i loro frutti: basti pensare alle associazioni di studenti calabresi che ancora oggi hanno il quasi monopolio dei seggi nelle elezioni universitarie, mentre nell'ateneo messinese continuano ad essere usati metodi tipici di quegli anni come strumenti per la regolazione di esami, confronti elettorali, appalti (2 gambizzazioni, un omicidio, un incendio, 3 bombe - esplose ed inesplose - e varie intimidazioni negli anni dal '90 al '97).



Infatti, sono numerosi i casi di studenti provenienti dalla Calabria che utilizzano l'Università come postazione per lo svolgimento di attività criminali. Si può ipotizzare che si tratti di esempi e casi isolati, oppure di una precisa struttura nata proprio nel modo appena descritto:

La storia è citata da Arlacchi [1983, 129] nel libro "La mafia imprenditrice". In un paese della jonica reggina una ditta siciliana vince un appalto per la costruzione dell'ospedale. Una impresa locale chiede il subappalto per lo sbancamento e la fornitura materiali. Le due ditte si mettono d'accordo. Poco dopo il geometra della ditta esterna riceve minacce e sospende i lavori. L'impresa dei fratelli Bruno (pseud.; si tratta di mafiosi del posto) finisce per conquistare l'appalto ed estromettere la ditta siciliana.
Le telefonate di minaccia furono fatte, "in buon italiano", da uno dei fratelli Bruno, studente in legge dell'università di Messina.

Luciano Sansalone era consigliere dell'Associazione universitaria democratica (AUD) e "Grifone" dell'Università di Messina; socio dell'agenzia immobiliare 'Studio 4' e fondatore del periodico 'Il Calabrone'; era stato ucciso la sera del 6 dicembre 1984 nei pressi della sua abitazione in via Palermo. Da mesi era sospettato dagli inquirenti di "truccare le aste pubbliche promosse dall'Università" con la complicità proprio di Michelangelo Alfano e di Domenico Cavò.
Al maxiprocesso del 1986 il PM Providenti riferiva che l'imputato Giovanni Vinci, gestore della cassa delle cosche dopo la morte di Melchiorre Zagarella, sarebbe stato presentato proprio dall'ex presidente dell'Acr Messina Alfano "alla ditta catanese Molinaro che stava costruendo la facoltà di Farmacia all'Annunziata" (Gaz 17 giugno 86).

Il settimanale 'l'Isola' ha accennato ad una telefonata in mano agli inquirenti tra il presidente Alfano e il boss Domenico Cavò, qualche giorno prima dell'omicidio di Luciano Sansalone, "in cui il mafioso e il presidente parlerebbero di un certo appalto all'Università di Messina".

2 .Giuseppe Strangio è un altro studente dell'ateneo messinese, proveniente da San Luca. Nei primi anni '80 fu una delle prime persone arrestate a Messina per spaccio di droga. Nel 1987 fu nuovamente arrestato. In seguito a questa vicenda è stato costretto ad interrompere gli studi. Formalmente studiava per diventare dentista [cfr. Gaz 8 maggio 1993].

Nel 1993, Strangio è uno degli arrestati dell'operazione Peloritana, compiuta contro la mafia messinese: l'accusa è di acquisto e vendita di sostanze stupefacenti [cfr. OP, 1997].

3. Uno dei canali privilegiati attraverso cui la droga varca lo Stretto è costituita proprio da corrieri mascherati da studenti universitari. Il 10 novembre '95 la sezione narcotici arresta due studenti, uno di Cinquefrondi e uno di Gioia Tauro, che si occupavano di rifornire gli ambienti universitari. Vengono sequestrati alcuni chili di marijuana.

Altri casi lasciano ipotizzare che spesso non ci si limita solo alla marijuana ma anche a droghe pesanti.

4. Bruno di Giorgio, 32 anni, laurea in Economia e commercio a Messina, proveniente da Casignana, provincia di Reggio Calabria. L'ennesimo "studente" che varca lo Stretto e mette a frutto il suo know how criminale.

Di Giorgio è finito sotto processo per usura: aveva prestato 30 milioni al presidente dell'As Messina, Antonino Trimarchi, chiedendone poi 55. Il nome dell'ex studente si inserisce nell'ambito dell'inchiesta sulla squadra di calcio peloritana, avviata nel 1996.

L'As Messina è stata al centro di estorsioni (i clan proteggevano lo stadio "Celeste"), minacce (contro altri possibili acquirenti 'non del posto'), prestiti ad usura: Di Giorgio ed altri personaggi di origine calabrese avvicinarono il presidente Trimarchi, in gravi difficoltà economiche, e gli proposero un prestito con interessi del 200 %. I controlli bancari hanno dato conferma di questa circostanza. Emerge, per l'ennesima volta, il ruolo delle Facoltà messinesi come incubatrici di mafia.





La droga

Lungo il corso degli anni '70, i tossicodipendenti messinesi si rifornivano in prevalenza con viaggi a Palermo e Catania per la droga pesante, e con spostamenti a Reggio Calabria per quella leggera. Una miriade di piccole e medie forniture. Dal '76 in poi il numero di tossicodipendenti e di morti per overdose (sottostimati nelle statistiche ufficiali) è in crescita costante.

A partire dagli anni '80 nasce una organizzazione finalizzata alla distribuzione. Arriva la cocaina, la provenienza principale è Catania. Se prima il più importante centro di vendita è la centralissima Piazza Cairoli, adesso i luoghi dello spaccio diventano i quartieri periferici: Giostra, Camaro, Bisconte, Mare Grosso, Villaggio Aldisio, Provinciale, Santa Lucia sopra Contesse [Sicil giugno 1984, 24 sgg].

La distribuzione copre praticamente tutta la città, da nord a sud. Le persone coinvolte nella rete, a vari livelli, sono sempre in maggior numero. L'offerta di droga è abbondante, ed al crescere dei guadagni aumenta anche il consenso per l'organizzazione criminale. Alla metà degli anni '80 il numero dei tossicodipendenti è di circa duemila. Se 10 anni prima il consumatore di eroina è lo studente universitario di buona famiglia, adesso è il giovane disadattato delle periferie.

E' significativo, ed allo stesso tempo drammatico, che i clan si siano impiantati ed abbiano ottenuto consenso nei quartieri popolari dove più forte è il disprezzo per le sostanze stupefacenti e dove vige ancora l'ideologia dell'autenticità e della naturalità, retaggio della cultura contadina. Ma ben presto il culto del denaro spazza via quasi ogni residuo di precedenti mentalità.

L'organizzazione assume le regole già adottate da altre mafie, compresa l'eliminazione o comunque la punizione esemplare per chi compie uno 'sgarro', per chi viola cioè le regole relative alla distribuzione, ai prezzi, alle consegne.

Nel 1984 un processo per traffico di droga vede l'uno accanto all'altro i messinesi Giovanni Leo e Giuseppe Bonaffini ed i palermitani Sinagra.





Il maxi-processo

Il 22 giugno 1985 la Procura di Messina emetteva un ordine di cattura contro 300 persone accusate di associazione a delinquere di stampo mafioso. Era l'inizio del cosiddetto maxiprocesso, che portò in carcere quasi tutti i boss e buona parte dell'esercito mafioso. L'istruttoria si basava sulle dichiarazioni dei collaboratori Insolito e Turiano, oltre che su un denso lavoro investigativo.

Per un certo periodo, la pressione sulla città delle estorsioni e dello spaccio di droga fu allentata.

Le udienze si tennero presso l'aula bunker della casa circondariale di Gazzi. Gli imputati, rinchiusi nelle gabbie e assiepati dietro le sbarre, tennero per tutto il processo un atteggiamento violento ed intimidatorio.

Il clima di violenza raggiunse il culmine la sera del 6 maggio 1986, quando fu ucciso l'avvocato Nino D'Uva, difensore di alcuni degli imputati.

Secondo una prima interpretazione (sostenuta dal pentito Santacaterina), D'Uva fu ucciso per cambiare il volto del maxiprocesso, lanciare un messaggio di potenza delle cosche e creare un clima di terrore. In base a questa teoria, Mario Marchese e Gaetano Costa sono stati accusati di essere i mandanti dell'omicidio [cfr. Gaz 8 maggio 93, 16].

Secondo un'altra versione, sostenuta dai collaboratori Gaetano Costa e Filippo Barreca (boss della 'ndrangheta), l'omicidio di D'Uva era un messaggio al genero del penalista, il magistrato Melchiorre Briguglio, membro del collegio che a Reggio stava giudicando alcuni componenti della famiglia Iamonte, accusati di associazione mafiosa. La sentenza di condanna ed il mancato intervento di D'Uva scatenò la reazione di Natale Iamonte, che contattò immediatamente la mafia messinese per l'esecuzione. "Così, il pomeriggio del 6 maggio 1986 uno sconosciuto approfittò dell'assenza della segretaria del penalista, entrò nello studio e sparò un solo colpo da distanza ravvicinata sotto l'orecchio sinistro.

L'avv. D'Uva, che stava parlando al telefono, cadde sul pavimento e morì dopo pochi minuti [Gaz 16 giugno 1994, 5].



Nell'aprile del 1987 si arrivava alla sentenza, con alcune condanne e molte assoluzioni. Veniva riconosciuto il reato di associazione mafiosa, ma la città ancora tardava ad accorgersi della presenza criminale e reagiva con relativa indifferenza. Subito dopo il primo maxiprocesso, si avviava una seconda procedura contro 96 imputati accusati di traffico di droga. Quasi nessuno evitava la condanna.

Il primo maxiprocesso segnava certamente un momento di crisi delle cosche, ma non certo una sconfitta definitiva. L'effetto maggiormente rilevante era stato una crisi delle tradizionali leadership e una nuova fase di riorganizzazione, evidenziata da due dati: l'omicidio di Nino Costa (fratello di Gaetano) nel 1988, che segnava il tramonto del capo storico della mafia messinese; ed i 61 omicidi di malavitosi tra il 1987 ed il 1991, segno evidente della guerra di clan che stava ridisegnando la mappa del potere mafioso peloritano.

Vediamo ora nei dettagli la struttura e le attività dei principali gruppi mafiosi messinesi per un periodo che si può approssimativamente circoscrivere tra l'inizio degli anni '80 e l'inizio degli anni '90.





L'organizzazione Costa

Il 30 dicembre del 1978 viene ucciso Ciccio Mento, figura esemplare del vecchio uomo di rispetto. Mento, che esercitava la sua influenza sui commercianti di Giostra, viene eliminato proprio in coincidenza con l'emergere del clan Costa, che si apprestava a svolgere le proprie attività in maniera 'industriale'.

Se Mento riscuoteva il pizzo da pochi esercenti - e questo gli bastava per vivere - i nuovi criminali seguono la logica dell'accumulazione indefinita. Parallelamente, non ci sono più limiti all'uso della violenza.

Il gruppo di Gaetano Costa è portatore di una grande carica di rivalsa sociale. Voglia di ascesa sociale individuale, con ogni mezzo. Nelle lettere sequestrate nel 1981 e scritte da Sebastiano Valveri (uno degli esponenti del clan), i membri della cosca vengono indicati come i giovani migliori della città, si sottolinea la necessità di stringere i vincoli associativi e si definisce la nascita dei gruppi criminali con una intensa metafora:

"Decine e decine di boccioli nascenti in attesa di sbocciare dritti come la guida che le [sic] sarà data".

I membri indicavano il clan come famiglia; il capo indicava i propri adepti come figliocci, richiamando i meccanismi di padrinaggio-comparaggio ben presenti nella nostra società, nonché la retorica familiare la cui pregnanza è evidente.

L'attività del clan si concentra sul controllo del territorio mediante l'uso intimidatore della violenza. Si può affermare che il quartiere Giostra - da quel momento - diventa zona franca in mano alla criminalità.

La forza della cosca di Costa cresce di molto nel momento in cui vengono stabiliti contatti con le altre organizzazioni criminali:

- il 12 luglio del 1979 uomini di Santapaola e gli uomini di Costa uccidono insieme Sicali, colpevole di aver tentato un'estorsione ad un cantiere del cavalier Costanzo, già allora protetto da Santapaola;

- nel 1981 a Milazzo vengono arrestati in una villa esponenti della mafia messinese e di quella siracusana; ancora tra l'85 e l'86 Pippo Leo e Salvatore Ventura (esponente del clan di Giostra) avevano fornito armi ai siracusani, che poi le utilizzarono in alcuni omicidi;

- nel 1983 la Procura di Napoli emette un ordine di cattura contro Gaetano Costa, per appartenenza alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. I rapporti tra Costa e camorra sono sempre stati stretti, e la stessa struttura del clan di Giostra si ispira all'esperienza napoletana.



Ma i legami più consistenti sono quelli che uniscono Costa alla vicina Calabria. E' il diretto protagonista, nelle vesti di collaboratore di giustizia, a fornire un dettagliato racconto:

"Nell'anno 1972 ebbi il mio primo contatto con la criminalità organizzata calabrese, allorché mi venne conferito il grado di camorrista con lo specifico compito di 'capo giovane' [...]. La città di Messina costituiva un 'locale' a pieno titolo inserito nella 'ndrangheta. Nell'anno 1972 il 'locale' di Messina era comandato da Sandro De Tullio, immediatamente sottordinato ai capi storici della 'ndrangheta calabrese dell'epoca e cioè Antonio Macrì di Siderno, Mommo Piromalli di Gioia Tauro e Domenico Tripodo di Reggio Calabria, triade unita che comandava tutta la provincia calabrese.

La 'ndrangheta calabrese era pertanto formata da numerosi 'locali' a cui capo vi era uno sgarrista eletto, appunto, a capo società. Infatti in quel periodo il grado più alto nell'ambito della 'ndrangheta era quello di sgarrista. Il capo-società aveva il compito istituzionale di controllare il territorio del suo 'locale' e dare esecuzione alle direttive dei tre capi supremi sopra menzionati" [OL 1995, vol.II, 276 sgg].

Agli atti del processo "Orsa maggiore" ci sono alcune considerazioni sui legami della mafia messinese:

"Venendo al territorio messinese, in merito al quale hanno riferito tra gli altri i collaboranti Costa Gaetano, Cariolo Antonino e soprattutto Sparacio Luigi, oltre che alcuni dei collaboranti di area catanese, è emerso che anche in questa provincia, come in quella siracusana, non esistevano famiglie di Cosa nostra stabilmente insediate nel territorio.

Invero, nella provincia di Messina operavano principalmente le organizzazioni criminali che facevano riferimento alla 'ndrangheta calabrese. Dichiara infatti Costa Gaetano, esponente di vertice l'organizzazione criminale messinese negli anni '70 ed '80, che la propria organizzazione era per l'appunto collegata alla 'ndrangheta calabrese dei Piromalli.

Del gruppo del Costa faceva parte anche Di Blasi; anzi tra i due intorno alla metà degli anni '80 intervenne una faida interna che si concluse con il predominio del Costa sul Di Blasi" [OM 1997, 309 sgg.].

Costa racconta ancora delle attitudini richieste per far parte dell'organizzazione. Ad un aspirante membro veniva ordinato di uccidere un esponente delle forze dell'ordine o un nemico del clan. Anche se l'ordine veniva revocato, il rituale serviva a verificare il coraggio e la determinazione del nuovo adepto.

A metà degli anni '70, i boss calabresi introducono il grado massimo di 'santista'. L'opposizione della vecchia guardia, in particolare di Antonio Macrì (ucciso nel 1975), viene presto superata: le nuove regole antepongono l'interesse personale del 'santista' a quelle collettive dell'organizzazione, poiché i titolari del massimo grado da quel momento possono in caso di necessità anche tradire ed entrare in contatto con le istituzioni pubbliche statali, pratiche in precedenza vietatissime e che suscitavano diffidenza nei vecchi uomini d'onore calabresi.

Dopo uno scontro sanguinoso, dalla seconda metà degli anni '70 la "Santa" è organizzazione riconosciuta in tutta la Calabria. Costa assume il grado di santista nel '76, per espresso ordine dei De Stefano, boss di Reggio Calabria.

Il rituale di affiliazione mostra chiaramente l'ispirazione massonica della struttura. Una delle "regole segrete", 'svelate' da Costa recita infatti:

"Conoscete la famiglia dei muratori ? No ma all'occorrenza ce l'abbracciamo in pelle, carne ed ossa giurandole la fedeltà che ci verrà chiesta alla famiglia del sacro ordine dei muratori" [ibidem].

In ossequio alla tradizione esoterica, il numero dei santisti avrebbe dovuto essere di 33 unità. Ben presto tale numero fu superato, rendendo necessario la creazione di un grado superiore, alla fine degli anni '70. Comunque, al di là dei gradi e dei simboli, le gerarchie di potere all'interno della 'ndrangheta erano quasi sempre decise mediante guerre estremamente cruente e feroci omicidi. Gradi e simbologie servivano a sancire i rapporti di forza e gli equilibri raggiunti.

In seguito alle guerre di mafia che insanguinano a lungo la Calabria, i principali boss si accordano per creare delle strutture finalizzate ad evitare, nel comune interesse, uno scontro che appariva infinito.

Così, si stabiliscono due "camere di controllo", una per la zona tirrenica con 'epicentro' nella Piana di Gioia Tauro, l'altra per la jonica centrata sulla locride. Si tratta di due strutture di coordinamento finalizzate alla ricerca di accordi e strategie comuni da stabilire a livello territoriale, in vista di un comune progetto regionale.

Costa, nel verbale datato 26 febbraio 1994, dichiarava che "la 'ndrina di Messina fa parte della 'camera di controllo' della Piana ed io stesso ne faccio parte nella qualità di capo a mezzo dei miei delegati".



La sentenza del maxiprocesso, definita dalla Corte d'Appello di Messina, ha stabilito l'esistenza, sul territorio cittadino, di quattro gruppi criminali operanti fino al 1985. I primi tre sono stati definiti come associazioni a delinquere di tipo semplice (clan Cariolo, Ingemi e Milone). Il quarto, il gruppo Costa, aveva avuto la definizione di associazione mafiosa (ex 416 bis c.p.) [cfr. ML 1996, 82]

il clan Costa

Gaetano Costa
boss

Domenico Di Blasi
capi dei sottogruppi

Vincenzo Bitto
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Giuseppe Leo


Placido Cambria


Domenico Cavò


Sebastiano Valveri



[cfr. ML 1996, 83]



La Corte, nella sentenza, evidenziava inoltre la rivalità tra il gruppo Costa e quello capeggiato da Placido Cariolo.

Si metteva però in evidenza il maggiore peso del primo clan, in grado di svolgere attività criminali ed espandersi anche dopo processi ed arresti:

"[Il clan Costa] è rimasto successivamente in vita ed anzi ha prosperato, malgrado la detenzione in carcere di numerosi suoi capi e promotori, dedicandosi in prevalenza, alla programmazione di reati contro il patrimonio (rapine, estorsioni, furti). [...]

[E' da rilevare] il netto predominio che i maggiorenti della famiglia Costa riuscivano ad esercitare all'interno della Casa circondariale di Messina, in modo da incrementare, addirittura, il numero dei propri adepti, svolgendo una capillare opera di proselitismo mediante il trattamento di favore che riuscivano ad assicurare ai propri affiliati.

Parimenti, i capi della stessa famiglia continuavano a mantenerla in vita e ad alimentarla, nonché, imperterriti, a dirigere, dal carcere, la gestione delle attività delittuose esterne della propria organizzazione" [cit. in ML 1996, 83].



L'organizzazione Costa, costruita sul modello della 'ndrangheta e della nuova camorra, comprendeva al suo interno alcuni gruppi che godevano di una certa autonomia, salvo il preventivo accordo con i vertici per i maggiori delitti, in particolare per i crimini di sangue e tutti quei reati che avrebbero potuto coinvolgere gli interessi complessivi dell'organizzazione [cfr. ML 1996, 84].

Il clan Costa si caratterizzava per i rapporti molto stretti con le altre organizzazioni, per l'assiduità nell'assistenza fornita agli affiliati in carcere e per le pratiche importate dalle altre organizzazioni criminali che avevano alle spalle una tradizione ben più antica rispetto a quella messinese.

Arrivavano così nella città di Messina i rituali di iniziazione e la definizione di una gerarchia interna all'organizzazione, con gradi le cui denominazioni erano chiaramente ispirate ai modelli criminali di riferimento:

santista
vertice

sgarrista
grado intermedio

camorrista
" "

picciotto
grado inferiore


[cfr. ML 1996, 85]

Tale struttura rimane in piedi fino al 1985. Tra il 1986 e il 1987, a cavallo del primo grado di giudizio del maxi processo, il sistema Costa entra in una crisi irreversibile, da cui nascerà una nuova mappa dei gruppi criminali messinesi.





La città divisa in cinque

Il blitz del giugno 1985, dunque, segna la crisi dell'organizzazione Costa: dopo due anni sarà completata la scissione in cinque tronconi, che controlleranno la città per un periodo di circa quattro anni, dal 1986 al 1990.

E' un periodo di guerra di mafia (almeno 22 assassini e 27 tentati omicidi), oltre che di tassazione a tappeto degli esercizi commerciali e delle imprese della città. E' un periodo di ferreo controllo mafioso del territorio.

Tutti i sei boss 'generati' dall'organizzazione Costa hanno una storia simile, essendo stati affiliati in giovane età ed essendo cresciuti all'ombra del boss, apprendendone i metodi e la mentalità.

La scissione porta ad una spartizione territoriale delle zone di competenza.

Il clan di Luigi Galli (1) e quello di Mario Marchese (2) controllavano il quartiere di Giostra e le aree limitrofe della zona nord. Il clan di Luigi Sparacio (3) controllava il centro cittadino. La cosca di Iano Ferrara (4) aveva la sua base al Cep e controllava la zona sud della città. Più articolate le vicende di Domenico Leo e Giorgio Mancuso (5), boss di Villaggio Aldisio che prende il posto di Leo: al loro clan spettava il controllo della zona centro-meridionale della città corrispondente all'area che va dallo svincolo di Gazzi a Provinciale [cfr. OP 1997, passim].

Vedremo in seguito che dalla crisi dei gruppi di Villaggio Aldisio troverà spazio il clan di Mangialupi, capeggiato da Salvatore Surace, non legato ad una rigida competenza territoriale e capace di inserirsi in ogni spazio disponibile in città ed in provincia.

Vedremo nelle trattazioni specifiche in quali forme e con quale rigidità ogni clan esercitava la propria signoria territoriale.

periferia sud
centro-sud
centro
nord
nord

Cep-Tremestieri
zona viale Gazzi

Giostra
Giostra

Ferrara
Mancuso - Leo
Sparacio
Marchese
Galli


La mappa dei vari clan è stata disegnata dall'Operazione Peloritana : nell'ipotesi degli investigatori, i cinque clan contavano su almeno 129 affiliati. E' così possibile ricavare gli ipotetici organigrammi, almeno nelle linee essenziali:

Ferrara
Mancuso - Leo
Sparacio
Marchese
Galli

Rosario Tamburella
Lorenzo Micalizzi
Vincenza Settineri
Claudio Ciraolo
Giuseppe Mulè

Salvatore Manganaro
Letterio Cosenza
Ignazio Erba
Carmelo Calafiore
Carmelo Mauro

Rosario Manganaro
Carmelo Cardubbo
Santi Battaglia
Antonio Cambria Scimone
Santo Mauro

Domenico

Di Dio
Antonino Leonardi
Raffaele Genovese
Nicola Galletta
Orazio Mauro

Giuseppe Zoccoli
Giuseppe Venuto
Romualdo Insana
Franco Cordima
Antonino Mancuso

Angelo Santoro
Giuseppe Cucinotta
Pietro Vadalà Campolo
Natale Aprile
Gaetano Marotta

Giuseppe Arena
Pietro Costantino
Nicola Tavilla
Angelo Bonasera
Antonino Rigano

Angelo Magazzù
Domenico Leo
Marcello D'Arrigo
Carmelo Romeo
Rosario Rizzo

Salvatore Comandè
Nunzio Pantò
Bruno Gentile
Placido Calogero
Pietro Squadrito

Pasquale Maimone
Giovanni Moschella
Pasquale Castorina
Salvatore Centorrino
Giovanni Paratore

Giuseppe Curatola
Antonino Previtera
Giovanni Cucè
Giuseppe Cambria Scimone
Rosario Bonanno






La violenza programmata: omicidi e violenza mafiosa a Messina

La ricerca intitolata "La violenza programmata", svolta sulla violenza mafiosa a Palermo, distingue alcune tipologie di omicidi:

1. interni, consumati nell'àmbito del mondo mafioso;

2. esterni, consumati al di fuori del mondo mafioso e distinti nei seguenti sottotipi:

a. omicidi politico-mafiosi, delitti compiuti contro persone impegnate a qualsiasi titolo nella lotta contro la mafia o che comunque abbiano rappresentato un ostacolo rispetto alle strategie ed alle attività mafiose;

b. omicidi economico-mafiosi, compiuti contro imprenditori o altri operatori economici che abbiano rappresentato un ostacolo rispetto agli interessi o alle attività mafiose;

3. vendette trasversali, compiute contro parenti degli avversari nel conflitto infra-mafioso oppure contro congiunti di collaboratori di giustizia;

4. omicidi di matrice incerta.

[adattamento da Chinnici - Santino 1991, 199-200].



1. La conflittualità della mafia messinese è quasi esclusivamente interna. La ricostruzione dei contrasti tra i vari clan mostra una conflittualità endemica tra i gruppi, evidenziando così anche il ruolo di Costa come mediatore.

Dopo la condanna di quest'ultimo, infatti, esplode uno scontro che porta a diversi omicidi e tentati omicidi. L'obiettivo è la conquista di spazi di potere all'interno dei gruppi peloritani, ovvero l'accaparramento di quote maggiori della ricchezza prodotta con le attività criminali.

In questo quadro si inserisce l'omicidio di Domenico Cavò, avvenuto il primo marzo del 1988, sulla via Garibaldi, in pieno centro cittadino. L'assassinio è frutto dello scontro col clan Leo: Cavò stava allargando la propria influenza, intrecciando legami coi palermitani e pensava all'uccisione di Leo, che invece lo anticipa. E' però Sparacio a trarre benefici dall'omicidio, sostituendo Cavò.

Il movente dell'omicidio di Placido Cambria, ucciso nella sua abitazione il 18 gennaio 1989, è simile a quello di Cavò: serve a definire equilibri e frenare una ascesa pericolosa ed invisa ai capi Galli e Leo.

Si inseriscono in questo contesto molti altri omicidi, dovuti agli scontri tra Marchese e Cambria e tra Sparacio e Galli.

Nel corso del processo "Operazione Giostra", il pentito Todaro ha offerto uno spaccato della guerra di mafia del 1992, mettendo in evidenza la ferocia normale, (quasi quotidiana e "banale") e le motivazioni che erano alla base degli scontri:

"[...] Todaro ha poi dato la sua versione sui "giorni di fuoco" dell'estate e dell'autunno del 1992. "Entrammo in contrasto con Luigi Sparacio per la questione della gestione delle bische clandestine. Galli avanzava un mucchio di soldi, Sparacio si stava allargando troppo, così, in una serie di riunioni, i capi decisero che doveva morire. Anche gli uomini di Marchese erano d'accordo: conveniva pure a loro che Sparacio fosse tolto di mezzo. Una mattina di agosto ci incontrammo con tutti gli esponenti di rilievo del clan in una villetta sulla costa tirrenica. Domenico Papale tirò fuori le pistole dalla cappa della cucina, dove erano nascosti anche mitra, fucili e dinamite, e le diede a me, a Barresi, a Salvatore Bonsignore e ad un minorenne. Ci appostammo davanti alla villa di Sparacio, a Rodia, ma per un motivo e per l'altro non riuscimmo a sparare".

Nell'ottobre poi scoppiò la guerra. "Venne ucciso Antonio Stracuzzi a Villa Lina e noi capimmo subito che era stato Sparacio. Ci fu un'altra riunione a casa di Marotta e stabilimmo di vendicarci uccidendo tutti gli uomini di Sparacio che ci fossero capitati a tiro. Decidemmo di cominciare da Rosario Vinci e da Antonino Villari, i luogotenenti del capo. Giravamo armati, facevamo delle vere e proprie ronde a caccia degli obiettivi. Una sera vidi Domenico Barresi e mi disse che assieme a Pietro Squadra avevano ammazzato Villari. Andammo insieme sul luogo del delitto, poi Marotta ci diede del denaro e andammo a mangiare fuori, per festeggiare ma anche per tenerci lontani da casa".

"Due giorni dopo eravamo a caccia di Vinci. All'improvviso venne un nostro amico e ci disse di averlo visto scendere in moto sul viale Giostra. Un altro compagno, poco dopo, ci riferì che Vinci aveva sparato a Tanino (Marotta) e di non aver pietà. Un gruppo di fuoco andò a casa di Maurizio Mento, uomo pure di Sparacio, e lo trovò che festeggiava il compleanno della figlia. Mento fu freddato davanti alla porta di casa. Barresi mi raccontò che la sua pistola si era inceppata e che a sparare era stato S.M., allora minorenne". [Dichiarazioni rese in aula il 24 febbraio 1995; cfr. Gaz 25 febbraio 95, 5].

Riassumendo, nella seconda metà degli anni '80 la violenza omicida infra-mafiosa aveva essenzialmente questi compiti:

definire le zone di competenza, in relazione allo spaccio di stupefacenti ed all'esazione delle tangenti dagli operatori economici.
2. Stabilire i ruoli e le quote di potere di ciascun gruppo.

3. Scalare posizioni all'interno di un gruppo.

4. Frenare ascese modificatrici degli equilibri.

Spesso, tuttavia, la violenza omicida aveva una funzione preventiva: appena si veniva a conoscenza dell'ipotesi per cui qualcuno avrebbe pensato ad una eliminazione, si agiva immediatamente per anticiparlo: si era creata così una psicosi che portava al reciproco sospetto ed al ricorso continuo alla violenza 'interna'.



2. Dal punto di vista degli omicidi e degli atti di violenza esterni, si tratta di un fenomeno molto meno frequente rispetto alla violenza infra-mafiosa.

a. violenza politico-mafiosa. La mafia messinese non è mai arrivata ad uccidere un esponente delle istituzioni o delle forze dell'ordine, o un magistrato. Da un lato questo elemento può indicare una minore intraprendenza ed un più basso profilo della criminalità locale rispetto ad altre mafie.

E' anche vero, però, che l'omicidio politico-mafioso è finalizzato ad eliminare un soggetto che, a qualunque titolo, costituisce un ostacolo per le cosche. E per lungo tempo, sia a livello istituzionale che di movimento antimafia, di ostacoli la mafia messinese ne ha conosciuti ben pochi.

b. violenza economico-mafiosa. E' da ricordare l'omicidio di un esercente della zona Sud, sul cui movente rimane un'ombra di incertezza:

"L'agguato [di Giuseppe Napolitano, che risale al 22 febbraio 1991,] avvenne davanti al negozio di giocattoli "Francois" [,di proprietà della vittima], che già quattro volte i taglieggiatori avevano incendiato nel tentativo di fiaccare la sua volontà, di stroncare una resistenza che cominciava a diventare imbarazzante. A far [...] luce sul delitto, che subito gli investigatori avevano comunque inquadrato, sono stati i magistrati della Direzione distrettuale antimafia che hanno scritto l'angosciante romanzo della "Peloritana 2". [...]

Il collaboratore di giustizia che sa di più sulla vicenda, secondo gli inquirenti è Pasquale Castorina, mandante e reo confesso. Ma i giudici non nascondono perplessità sulle sue dichiarazioni, che appaiono in qualche punto reticenti. Molto più credito viene dato a Vincenzo Paratore e a Marcello Arnone, i quali hanno raccontato che la causale del delitto fu la volontà di Castorina, che controllava le estorsioni nella zona, di dare una lezione definitiva al Napolitano, che si era opposto con troppa decisione al tentativi di estorsione messi in atto dallo stesso boss e dai suoi uomini.

Esecutore del delitto sarebbe stato, a parere di Paratore e di Arnone, Pasquale Pietropaolo, nipote di Castorina. Quest'ultimo non ha smentito le presunte responsabilità del congiunto, ma ha negato di aver preso parte personalmente all'agguato: si sarebbe limitato a riaccompagnare a casa il sicario dopo che questi era andato da lui per riferirgli l'esito della missione di morte.

Quanto al movente, Castorina dà un'indicazione completamente diversa: a volere la morte di Napolitano sarebbe stato Domenico Di Blasi, detto "Occhi 'i bozza", il quale voleva fare un favore al clan catanese dei "cursoti", i cui capi erano irritati dal fatto che il commerciante non aveva pagato alcune forniture di merci avute da ditte di Catania legate alla mafia.

Sparacio ha raccontato di non aver avuto informazioni di prima mano sul delitto, il pentito seppe solo che mandante dell'omicidio era Di Blasi e che esecutore sarebbe stato o il Castorina o Pietropaolo. Di Blasi avrebbe raccontato all'ex boss che aveva deciso di eliminare Napolitano perché riteneva questi un abituale confidente della Squadra mobile.

Il delitto avvenne in una sera piovosa. Poco dopo le 20 Napolitano parcheggiò la sua Audi 80 davanti al negozio. Nonostante sapesse di essere nel mirino del racket, non adottò alcuna precauzione: scese dall'auto senza guardarsi in giro e chiuse lo sportello. Prima che avesse il tempo di girarsi, un individuo vestito di scuro gli sparò quattro colpi di pistola calibro 7,65. Il commerciante crollò sulle ginocchia, poi stramazzò a terra.

Il sicario gli si avvicinò con freddezza e lo fini con il colpo di grazia alla nuca.

Il fragore degli spari venne udito in tutto la zona. Il figlio della vittima, Massimiliano, che si trovava all'interno del negozio assieme alla madre, Francesca Cipriano, si precipitò fuori ma riuscì a vedere solo un'ombra che si allontanava veloce. La signora Cipriano crollò svenuta sul corpo senza vita del marito e dovette essere trasportata d'urgenza in ospedale.

Sul posto intervennero l'allora sostituto procuratore Pietro Vaccara, che è tra i firmatari dell'ordinanza della Peloritana, e gli uomini della Squadra mobile. Gli investigatori riuscirono ad inquadrare l'omicidio, ma il muro di omertà, ancora solidissimo, impedì loro di raccogliere prove sufficienti per l'emissione di un ordine di custodia cautelare nei confronti dei presunti responsabili" [Gaz 8 agosto 95, 5].

Se gli omicidi nei confronti degli operatori economici non sono certo numerosi come nell'area palermitana, gli atti di violenza sono al contrario numerosissimi, quasi tutti a scopo estorsivo.

Negozi incendiati, bombe contro le saracinesche, automobili bruciate. Si tratta di una violenza quasi quotidiana, che ogni mattina i messinesi apprendono dai mass media locali, quasi con assuefazione o senza neanche badarci.

Talvolta, però, la violenza giunge ad estremi livelli di pericolosità. Ma anche in questo caso non suscita rilevanti reazioni di sdegno o protesta:

Il 22 gennaio del 1985 l'imprenditore edile Alfio Vitale fu ferito gravemente sul torrente Trapani dai killer inviati dal clan Leo. Secondo il pentito Umberto Santacaterina, il ferimento dell'imprenditore fu causato dal rifiuto di pagare il pizzo [Gaz 27 giugno 93, 8].

Nella serata del 14 novembre '97, una bomba distruggeva un negozio di sanitari sulla via Cesare Battisti, nel centro della città. Solo per una serie di fortunate coincidenze non si sono avute vittime o feriti: infatti, a causa della deflagrazione, migliaia di schegge sono state lanciate tutt'intorno come proiettili. Gli edifici circostanti e le auto parcheggiate hanno subito pesanti danni.

Ma sarebbe bastato che qualcuno si fosse affacciato dal balcone di un palazzo di fronte per essere colpito. E per miracolo in quel momento nessuno transitava per la strada, e quindi una possibile strage è stata evitata [Gaz 15 novembre 97, 31].



3. Non sono mancati pesanti segnali di imbarbarimento nella storia recente della mafia messinese.

Tali segnali sono dovuti non tanto alla perdita di "leggi d'onore della mala", quanto al generale clima di violenza ed omertà diffusa che sommerge l'intera città. E' utile riportare la cronaca della prima vendetta trasversale compiuta a Messina contro il parente di un collaboratore di giustizia:

"La pistola si è alzata all'improvviso. Francesco Castano, 34 anni, l'ha guardata sbalordito. Due colpi l'hanno raggiunto al volto prima che capisse cosa stesse accadendo, poi una gragnuola di pallottole gli ha straziato l'addome e le spalle. Il giovane ha barcollato nell'impossibile tentativo di sfuggire ad una sorte segnata, poi è crollato a terra, vittima inconsapevole di una selvaggia e vigliacca vendetta.

Francesco Castano, descritto come un "ragazzo a posto", un onesto padre di famiglia, con ogni probabilità è stato ucciso solo perché cognato di Guido La Torre, ex uomo di fiducia di Luigi Sparacio divenuto nei mesi scorsi accusatore implacabile di decine di "picciotti". E la prima vittima messinese di una vendetta trasversale. Mai i killer dei clan avevano colpito i parenti dei loro nemici.

Mai era stata infranta quella regola delle leggi "d'onore" della mala che legavano alla colpa diretta dell'"infame" una sentenza di morte.

Nella sanguinosa storia delle cosche messinesi, mille volte si era sparato per punire tradimenti, soffiate, passioni proibite, ruberie, ribellioni. E la prima volta che si ammazza guardando lo stato di famiglia, che si stronca la vita di una persona solo per mandare un messaggio ad un parente.

La dinamica del delitto conferma l'agghiacciante movente: i sicari non hanno voluto solo uccidere, ma hanno compiuto un rito di morte per impressionare il destinatario dell'odiosa minaccia.

Castano, operaio in una ditta che installa impianti di condizionamento, è uscito di casa poco prima delle 7, come tutte le mattine, per portare a spasso il barboncino che aveva regalato ai suoi tre figli, due maschi e una femmina.

Le due persone incaricate dell'esecuzione erano ben al corrente delle sue abitudini, avevano informazioni precise, raccolte durante pazienti pedinamenti. Sapevano che il giovane avrebbe portato il cane fino in via Siracusa, dietro all'isolato dove abitava. I killer si sono avvicinati senza destare sospetto; erano con ogni probabilità in sella ad uno scooter: gli investigatori hanno più tardi notato la traccia di uno pneumatico sul marciapiede.

Gli assassini hanno eseguito la loro missione in tutta tranquillità. Saliti sulla banchina, si sono trovati di fronte l'ignaro operaio e l'hanno freddato con otto colpi. Sei sono andati a segno, due si sono conficcati nella finestra di un locale seminterrato nel quale dormivano due persone.

Castano si è girato su sé stesso, come in una danza macabra, è stato raggiunto dall'ultima pallottola alle spalle ed è stramazzato al suolo, morto sul colpo. I sicari sono fuggiti a tutto gas. Nessuno li ha visti, almeno ufficialmente: molte delle finestre delle case che si affacciano in via Siracusa erano aperte e sicuramente qualcuno si è affacciato, allarmato dagli spari.

[...] Castano aveva sposato tredici anni fa Barbara La Torre. Quando Guido si penti, la sorella e il marito non vennero inseriti nel rigido programma di protezione. Il legale del collaboratore, avvocato Ugo Colonna, aveva chiesto più volte, anche nei giorni scorsi, che il Ministero prendesse sotto tutela Castano e la moglie, ma il suo appello non era stato ascoltato.

Gli inquirenti si chiedono ora perché i sicari abbiano scelto proprio Castano come vittima della vendetta. Il giovane non era un personaggio noto. Forse era solo un bersaglio facile da colpire, l'unico modo per arrivare al superprotetto La Torre e instillargli il veleno della paura. [...]" [Gaz 10 agosto 95, 12].

Già in precedenza la violenza dei criminali era stata finalizzata ad intimidire il più importante dei collaboratori di giustizia locali, cioè Sparacio, esponente di maggiore rilievo della mafia messinese.

Il 3 novembre del 1994 fu versata benzina sulla saracinesca di un supermercato di Viale Annunziata gestito dai suoi familiari. Per evitare che si pensasse ad un avvertimento del racket, venne conficcata sulla porta d'ingresso un'accetta, ad indicare una chiara minaccia.

Il 16 febbraio del 1995, la porta dell'abitazione di via Boner (domicilio della suocera Vincenza Settineri) è stata forzata. In tutte le stanze veniva gettata benzina, mentre si predisponeva una miccia. L'attentatore, udendo dei rumori, è fuggito. Rapidamente si lanciava l'allarme e l'esplosione (che avrebbe creato gravissimi danni a tutte le abitazioni circostanti) veniva evitata.

4. L'omicidio dell'avvocato D'Uva è stato ritenuto il più rilevante tra quelli esterni. Ma, come detto in precedenza, il suo movente è rimasto sospeso nel dubbio: per il momento, rimane un assassinio di matrice incerta.





I clan di Giostra: Galli

Il clan Costa usciva quindi dal maxiprocesso con la crisi della sua dirigenza. L'omicidio del fratello di Gaetano Costa, citato in precedenza, segnava l'uscita di scena del vecchio boss. All'inizio degli anni '90 il comando a Giostra era conteso da Luigi Galli e Luigi Sparacio, mentre si formava un terzo gruppo facente capo a Mario Marchese. I rapporti tra i tre boss sono caratterizzati da un'alternanza di alleanze e contrapposizioni anche violente.

attività dei clan di Giostra:
traffico di droga


estorsioni


gioco d'azzardo


rapine


usura


[cfr. OG 1996, 8]



La storia Luigi Galli è simile a quella degli altri boss di Giostra. Con l'uscita di scena di Costa sale ai massimi livelli criminali entrando in competizione con gli altri boss per il predominio e la definizione delle zone di competenza.

Già negli anni '80 Galli aveva collezionato una serie di arresti per rapina, estorsione, detenzione di armi. La sua latitanza termina nel 1992, quando viene arrestato a Giostra dagli uomini della Volante. Si tratta però di un arresto di straordinaria importanza, non solo per la caratura dell'arrestato ma anche per le modalità con cui si svolse.

Galli fu infatti individuato e riconosciuto dai poliziotti, a Giostra. Subito gli agenti cercarono di fermarlo, ma decine di persone scesero in piazza e cercarono di aiutarlo a fuggire. Galli fu ugualmente arrestato, ma rimase la consapevolezza del consenso sociale di cui gode la mafia messinese in vaste zone della città. Una consapevolezza destinata ad affievolirsi ed a tornare viva solo in occasione di episodi analoghi.

Vediamo adesso le attività che caratterizzavano il clan Galli.

Questo il percorso della droga importata dalla cosca all'inizio degli anni '90: consistenti quantitativi di eroina venivano reperiti sul mercato calabrese, in particolare a Gioia Tauro. Bruno Delfino era il corriere che si recava a contattare i fornitori: giunto al luogo convenuto, di solito una stalla, prelevava la merce per quantità che oscillavano tra i 500 grammi ed chilogrammo.

Il carico, nascosto nell'impianto di aerazione di una autovettura, giungeva a Messina dove veniva occultato in alcune abitazioni, dentro casseforti e nascondigli. Quindi la merce era divisa e confezionata in singole dosi, pronta per lo spaccio eseguito da gran parte degli adepti [OG 1996, 11].

Il collaborante Todaro, ex soldato del clan Galli, ha affermato:

"Fu Marotta [uno dei 'dirigenti' del clan] a farmi scuola e mi affidò il compito di spacciare droga. Ma mi occupavo anche di estorsioni e, quando scoppiò la guerra di mafia, fui incaricato di sparare. Andavo a comprare la droga a Gioia Tauro un paio di volte al mese e mi incontravo con i trafficanti in una stalla; talvolta erano gli stessi calabresi che portavano la roba in casa di Marotta. La droga veniva poi affidata agli spacciatori, che la vendevano a Giostra: nel quartiere potevano spacciare solo noi e gli uomini del clan Marchese, coi quali, per un lungo periodo, fummo alleati". [Dichiarazioni rese in aula il 24 febbraio 1995; cfr. Gaz 25 febbraio 95, 5]

Per quanto riguarda le estorsioni si usava il meccanismo classico: un biglietto, alcune telefonate, le prime intimidazioni fino all'esplosione di colpi di arma da fuoco contro la saracinesca del negoziante. Generalmente non occorreva arrivare a quest'ultima fase, anche se in un caso - la tentata estorsione in una rivendita di elettrodomestici in viale della Libertà di proprietà di Orazio Fiannacca - fu sfiorato l'omicidio.

E' importante notare che la zona su cui si estendeva il controllo mafioso del clan arrivava sino in centro (via S. Cecilia, per esempio), comprendendo ovviamente la zona nord (vill.S.Agata, tra le altre zone colpite) in cui il quartiere Giostra è situato.

La vicenda della rivendita Fiannacca è esemplare sotto diversi punti di vista, perché permette di evidenziare la varie fasi e la struttura della tipica estorsione:


elementi



gruppo organizzato di estortori
clan Galli


mediatore (in genere un ex dipendente dell'estorto, o comunque qualcuno che lo conosce bene)
Bertone


estorto (la ribellione, se c'è, è individuale)
Fiannacca





fasi



contatto
entra in scena il mediatore


prima minaccia
in genere un biglietto


in caso di rifiuto, attentato al negozio
spari, bomba


" " , furto
viene offerta la possibilità di riavere la merce


in caso di rifiuto ulteriore, prosegue l'escalation
attentato alle persone fisiche


La vicenda Fiannacca - che risale al gennaio del 1991 - si discosta dall'estorsione-tipo compiuta dai clan di Giostra perché l'estorto non cede immediatamente, ma attraverso vari passaggi che portano lo scontro fino ad un tentativo di omicidio (il ferimento del figlio).

La resistenza di Fiannacca passa per una disperata resistenza individuale: al contrario, quando si presenta la possibilità di denuncia in sede processuale, la testimonianza diventa contraddittoria e confusa. Fiannacca non si costituisce parte civile. Qualunque sia la spiegazione di tale comportamento (adesione culturale ad un modello individualista ed antistatale o potenza intimidatrice della violenza mafiosa), questo comportamento (che costituisce la norma) ci restituisce ancora una volta la sensazione di una città lontana dalla tradizionale immagine di mediocre tranquillità.

Da segnalare ancora un episodio che illumina sulla capacità dell'organizzazione mafiosa di impersonare ruoli antitetici, di ladro e poliziotto, elemento d'ordine e perturbatore dell'ordine:

"Con comportamento di pregnante allusività, tipica del mafioso, il Bertone si offre per il recupero della refurtiva [rubata dal suo clan] e a tal fine conduce seco Orazio Fiannacca proprio nel rione Giostra" [OG 1996, 128].

La sentenza seguita alla c.d. "Operazione Giostra" descrive altre estorsioni compiute all'inizio degli anni '90 dal clan Galli. Da evidenziare che mai si arriva a più di due intimidazioni per convincere l'esercente al pagamento. In più, l'area "coperta" dal clan comprendeva la zona Nord (Ganzirri e gli altri villaggi costieri), il centro cittadino ed ovviamente il quartiere Giostra.

La vicenda dell'estorsione (per un periodo che va dal marzo 1991 all'ottobre 1992) al caseificio di Paolo Calogero evidenzia il livello di aquiescenza alla pratica estorsiva. Per essere più esatti, i giudici non si limitano a parlare di rassegnazione ma di vera e propria omertà:

"[Il collaborante Todaro] afferma che presso il soggetto passivo, imprenditore del settore alimentare, veniva prelevata solamente mercanzia. Il collaborante ricorda che ogni sabato si recava a prendere delle buste di latticini. Il cibo era destinato al Galli, al Marotta, al Mancuso [i capi della cosca] ed una busta era riservata anche a lui. Questa dazione avveniva in cambio di 'protezione'. Ove il Calogero non avesse accettato l'imposizione gli si sarebbe 'bruciato' il negozio.

La parte offesa, titolare di un caseificio sito in via San Iachiddu, ricadente 'in zona Ritiro, viale Giostra alto' ha negato di avere mai ricevuto richieste estorsive tanto in denaro quanto in beni di consumo da lui prodotti.

In una deposizione, che giustamente il PM ha definito 'da vignetta', il Calogero ha evidenziato un comportamento omertoso molto accentuato. Si è schernito dietro versioni risibili che se vere lo segnalerebbero più come uno sprovveduto o un benefattore che come un imprenditore inserito nel libero mercato. Le sue risposte sono state spesso non aderenti alle domande rivoltegli, volutamente generiche, talora interrotte e quindi poco intellegibili" [OG 1996, 139]

Un altro elemento importante è il controllo dei cantieri edili, col relativo servizio di guardianìa. Il clan Galli proteggeva il costruttore Francesco Munafò, in particolare il cantiere in via Palermo alta, nei pressi del viale Giostra. Il guardiano è Mastroeni, membro del clan Galli e garante dell'intoccabilità del protetto [OG 1996, 150]. L'arricchimento ulteriore della cosca di Giostra passa quindi per quella che è la più tipica delle attività mafiose.

Dal canto suo, l'imprenditore Munafò, interrogato nell'ambito del processo seguito all'Operazione Giostra, dimostra un contegno che i magistrati definiscono omertoso. Tenta di dichiararsi scarsamente interessato alla sua impresa ad all'oscuro delle vicende del cantiere (compreso il successivo omicidio di Mastroeni).



Organigramma del clan Galli (inizio anni '90)

Luigi Galli
capo

Gaetano Marotta
vice

Mancuso, Cotugno, Orazio Mauro
dirigenza

Minardi, Todaro Bonsignore (tra gli altri)
'manovalanza'


[cfr. OG 1996, 194]



Il settore delle rapine assume un certo rilievo nell'àmbito delle attività del clan. In particolare, alcuni di questi atti criminali servivano a procurarsi armi (anche se i principali canali di rifornimento erano esterni, in collaborazione con altre organizzazioni criminali). Da segnalare, una rapina compiuta nell'agosto del 1991 in pieno giorno sulla via Palermo. Dei tanti testimoni che affollavano la strada, nessuno vide, ad ulteriore conferma della forza intimidatoria delle cosche di Giostra, capaci di imporre il vincolo omertoso ad una intera comunità [OG 1996, 160].

Una attività particolare è quella del gioco d'azzardo. Il circolo "Il Gabbiano" sito in via Fata Morgana che nascondeva una bisca clandestina dietro il fragile velo di attività socio-ricreative. Il denaro raccolto al circolo finiva nelle casse dei clan messinesi: tra questi c'era l'organizzazione di Galli, che però poteva contare anche su altri luoghi per il gioco d'azzardo, in genere case private [cfr. OG 1996, 13].

Antonio Morgante, che dirigeva ed controllava le attività delle bische, era anche il responsabile dei prestiti ad usura: le eccedenze di denaro incamerate dal clan erano investite con prestiti ad alto tasso d'interesse verso soggetti in stato di bisogno. Le altre eccedenze erano distribuite tra gli affiliati, versate ai detenuti del clan, di cui in genere si pagava anche l'assistenza legale.

Esisteva una cassa comune, in cui confluivano tutti i proventi. La cassa faceva capo a Galli ed era gestita da Orazio Mauro. Il cassiere provvedeva evidentemente alla ridistribuizione degli utili.





Sedici ottobre 1992: Messina si scopre città omertosa

Antonino Villari viene ucciso il 16 ottobre del 1992, sulla via Garibaldi, nei pressi di una concessionaria di auto. Il delitto avviene in una via centrale della città, alle ore 20, mentre la strada è ingombra di automobili.

Il killer si avvicina a piedi alla vittima, bloccata nel traffico a bordo della sua motocicletta Honda. Gli spara da dietro, alla testa, e scappa verso una via parallela.

"Il killer percorre pochi passi di corsa e raggiunge facilmente l'"Honda", rimasta intrappolata nell'ingorgo, impugna una pistola calibro 9 e spara. Villari riesce a vedere in faccia il sicario, intuisce le sue intenzioni, ma ormai è in trappola. Due colpi lo raggiungono alla testa e crolla per terra, gli occhi sbarrati, in un mare di sangue e di materia cerebrale. Un'auto bianca, con a bordo tre persone, frena di colpo, riesce ad evitare il giovane per un soffio. Il killer fugge a piedi, poi sale a bordo della moto guidata dal complice che scatta verso nord.

Via Garibaldi diventa una bolgia infernale La gente urla terrorizzata, impreca. Il giovane alla guida della "Clio" scende dalla vettura e guarda attonito i buchi nella carrozzeria provocati dai proiettili. Ai centralini di polizia e carabinieri arrivano centinaia di telefonate. "C'è un morto, correte !", gridano i cittadini ansiosi di vedere una divisa, ansiosi di svegliarsi da quello che sembra un incubo: una via del centro trasformata in campo di battaglia della malavita." [Gaz, 17 ottobre 92, 27].

I testimoni sono innumerevoli, c'erano centinaia di persone bloccate nel traffico della via Garibaldi: in particolare due donne che si trovavano nell'auto incolonnata dietro la motocicletta di Villari. Evidentemente, il delitto si svolge sotto i loro occhi. Le testimonianze sono reticenti, chi afferma di aver pensato alle "cose [bombette] di carnevale", chi di essersi abbassata sotto il sedile e di non aver visto niente [OG 1996, 47 sgg].

Il killer agì a viso scoperto. Decine e decine di testimoni, la grandissima maggioranza, dopo il delitto si dileguarono con la stessa meticolosità descritta da Sciascia nelle prime pagine del "Giorno della civetta" [prima edizione 1961].

"Chi [non riuscì a fuggire] non vide nulla o, il che è lo stesso, non diede nessun apporto all'individuazione di un colpevole che aveva agito senza preoccuparsi di travisarsi. Le modalità plateali dell'occorso, la grande sicurezza del killer, che sceglie quel momento e quel luogo incurante di tutto e di tutti, l'omertà diffusa di chi vide è di stampo mafioso. Niente può sconfessare questa certezza, nessuno può fondatamente negarla" [OG 1996, 48-49].

Villari era cugino di Luigi Sparacio, indicato all'epoca come il capo di uno dei quattro clan cittadini. Da dieci anni i due cugini coabitavano: Villari, ufficialmente commerciante di "batterie ed indumenti", si occupava in realtà di traffico di stupefacenti.

Le testimonianze coincidenti di alcuni collaboratori, in primis lo stesso Sparacio, indicano che il movente del delitto era originato dai contrasti col clan di Luigi Galli. Lo scontro aveva già prodotto dei morti, e altri sarebbero venuti. L'ultimo motivo di litigio era stato la ripartizione del denaro (spartizione degli utili e debiti contratti) relativo alle bische clandestine.

"A Messina si è sempre vissuto di tragedie, non c'era una parola [...], un discorso preciso non è stato mai portato giusto, sempre c'era l'aggiunta di tragedie, per queste cose sono successi tanti morti" [dichiarazione di Sparacio riportata in OG 1996, 50].

L'arresto di Luigi Galli, avvenuto il 16 giugno del 1991, non frena la guerra. I sottoposti di Galli, Marotta e Cutugno, prendono le redini del clan e gestiscono lo scontro. L'omicidio Villari è l'immediata risposta al delitto dell'affiliato Antonio Stracuzzi. Fallito più volte un attentato a Sparacio, gli uomini di Galli si ripetono che la vendetta va consumata "prima del funerale di Stracuzzi". Dopo 48 ore cade Villari. E' il momento di un imbarbarimento generale:

"L'esigenza di scovare l'avversario in tempi brevi, per una pronta risposta, impose il ricorso a squadre, disseminate per la città, pronte ad intercettare il nemico di turno. [...] Dice in proposito [Sparacio]: 'noi stavamo salendo a Giostra a prendere qualcuno, chi veniva prima, chi capitava prima...'" [OG 1996, 73].





Il clan Sparacio

Luigi Sparacio compie il suo primo omicidio a 17 anni, il 9 luglio del 1978, quando avrebbe ucciso Sasà Bruzzese (buttafuori del ristorante La Macina).

E' nato e cresciuto nel rione Giostra, tra una banda di giovanissimi rapinatori. Viene arrestato e subito prosciolto nel 1981. E' imputato per mafia al primo maxi-processo. Anche qui una assoluzione, nonostante il PM avesse chiesto 15 anni e mezzo.

Diventa rapidamente un elemento di spicco dell'organizzazione Costa, ed assume sempre più un ruolo di primo piano, fino a quando negli anni '88/'89 forma un proprio gruppo che entra in contrasto con quello fondato da Costa [cfr. OM 1997, 309 sgg].

Viene così descritto in un rapporto del Comando provinciale dei Carabinieri:

"Luigi Sparacio deve essere considerato l'elemento più pericoloso tra i personaggi presenti sul palcoscenico della delinquenza organizzata messinese.

Dotato di non comune intelligenza ha, sin dagli albori della sua escalation criminale, dimostrato una costante tendenza a delinquere che, accomunata ad un notevole cinismo ed animo crudele, ne ha fatto in breve tempo il capo indiscusso dell'omonimo clan" [SP 1993, 4].

Dopo la morte degli esponenti di spicco della zona nord (Cavò, Pimpo), la posizione di Sparacio si rafforza. Il suo clan si caratterizza non solo per grandi capacità criminali e per le tradizionali attività come le estorsioni, ma soprattutto per una serie di attività economiche illegali estremamente redditizie.

Il lungo periodo di impunità termina anche per lui: al momento della cattura erano già stati emessi nei suoi confronti circa 15 provvedimenti di custodia cautelare. Il primo di questi provvedimenti - datato 1991 - riguardava le accuse di associazione a delinquere, estorsione ed usura ai danni di Giovanni La Fauci e della sua famiglia, in riferimento a fatti avvenuti nel 1991.

Nel 1993 la Squadra mobile segnala vari pregiudicati, tra cui Sparacio, per una serie di tentate truffe ai danni di istituti di credito e concessionarie di automobili. Nello stesso anno viene stilata una informativa di reato a carico di Sparacio per l'omicidio di Giacomo Panarello e per vari reati [cfr. MT 1996, 30].

E' stato anche ritenuto il mandante dell'omicidio di Giuseppe Vento, ucciso nel luglio 1992 in via Tommaso Cannizzaro. L'accusa formulata dalla Squadra mobile, risale ai primi mesi del 1993. In seguito a queste accuse Sparacio fugge e si dà alla latitanza.

L'"operazione Peloritana" [OP 1997, passim] del maggio 1993 indica Sparacio come il più importante dei capiclan messinesi. E' la più grave accusa che lo colpisce e segna la fine del periodo di impunità: una fine che probabilmente sorprende lo stesso Sparacio, sorretto da una rete di protezioni istituzionali ed amicizie importanti che lo avevano inserito nella società 'per bene': un ruolo che gli fa apparire normale protestare la sua innocenza - da latitante - al telefono del quotidiano cittadino:

"In diverse occasioni Sparacio ci ha telefonato in redazione, affermando di essere completamente estraneo ai fatti addebitatigli e di essere vittima di una macchinazione." [Gaz, 8 maggio 1993, 16]

Da collaboratore di giustizia, invia una distinta lettera (ancora alla Gazzetta) ed impartisce lezioni di giornalismo al direttore della Rai:

"Luigi Sparacio, il pentito chiamato in causa da alcuni organi d'informazione in merito al ventilato attentato ai giudici Antonio Di Pietro e Angelo Giorgianni, ha inviato la seguente lettera al nostro giornale:

"Chiedo di pubblicare questa mia nota nel suo quotidiano sia per rendere giustizia alla mia persona, sia per far cessare la martellante campagna di stampa che dal giorno del mio arresto non fa altro che ascrivermi fatti e circostanze false e fuorvianti.

Da ultimo il giorno 15 marzo, a pagina 112 del televideo Rai, è stata trasmessa una notizia secondo la quale avrei rivelato agli inquirenti che vi è in atto un piano della mafia per uccidere il giudice Di Pietro ed il suo collega di Messina dott. Giorgianni, e che il falso ordigno ritrovato nel palazzo di giustizia di Messina sarebbe servito per spingere fuori il giudice Giorgianni e colpirlo.

"Ho già inviato una vibrata smentita al direttore della Rai, stigmatizzando il suo operato in quanto una notizia cosi grave, che in questo momento incide violentemente sull'opinione pubblica, avrebbe avuto bisogno di un controllo rigoroso circa l'autenticità o meno della stessa, anche in considerazione della funzione di servizio pubblico d'informazione che riveste la Rai. Ho aggiunto inoltre che tale notizia mette in pericolo i miei familiari e scredita la mia persona poiché sottende una mia attuale connivenza con esponenti malavitosi. Cosa che certamente non è.

"Mi rivolgo pertanto al giornale affinché, pubblicando questa lettera, l'opinione pubblica sia messa a conoscenza della realtà dei fatti, ovvero che sono oggetto di una campagna di stampa denigratoria. Spero che ciò serva da richiamo a chi ha interesse a diffondere notizie false e tendenziose contro di me.

Certo dell'ossequio al principio della correttezza dell'informazione, porgo distinti saluti". [...]" [Gaz 19 marzo 94, 5]



Nell'ordinanza sull'Operazione Piraña, Sparacio risulta indagato per associazione mafiosa sino al mese di ottobre del 1994. Inoltre gli vengono contestati in concorso con Giovanni Vitale tre singoli casi di usura commessi sino alla data del 18 maggio 1992, prima cioè del suo pentimento (v. par. 3.1.2).

La sua latitanza si conclude il 14 gennaio 1994, quando si autoconsegna alla polizia all'imbarcadero della Caronte. Viene arrestato dai funzionari Benedetto Sanna, Giuseppe Petralito e Carmelo Bilardo (quest'ultimo cognato di Sparacio, in servizio assieme al nipote del boss alla Questura di Messina).

Lo stesso Sparacio riferisce che "l'arresto, materialmente eseguito dal dott. Benedetto Sanna, all'epoca dirigente dell'ufficio di prevenzione generale presso la Questura di Messina, era stato in realtà 'concordato'" [MT 1996, 25].

Una conferma arriva anche dall'altra parte in causa: "Sanna ha riferito che detta operazione [...] era stata preceduta da una serie di contatti telefonici, resi possibili anche per l'intervento dell'assistente di polizia Carmelo Bilardo, parente acquisito dello Sparacio, e culminati poi con il fermo di quest'ultimo" [ibidem, 37].

Dal punto di vista penale risultava al tempo ancora incensurato. Dopo l'arresto, Sparacio diventa un collaboratore di giustizia. "L'inizio pressoché immediato della collaborazione e le modalità della cattura inducono a ritenere che lo Sparacio avesse maturato già da tempo la decisione di offrire il proprio contributo agli organi inquirenti" [ibidem, 25].

Sparacio inizia a parlare dei "rapporti perversi tra i boss di Cosa nostra, un ex ministro della Repubblica, un sottosegretario e ben 16 magistrati appartenenti ai distretti di Messina e Catania. Ha riferito di una 'allegra gestione' di molti uffici giudiziari, complici uomini politici di rango, esponenti della massoneria messinese ed anche qualche ufficiale dei carabinieri". "Con la cocaina e con i soldi compravamo tutti", dice Sparacio [Gaz, 30 gennaio 1994].

Anche "la Repubblica" aveva fatto riferimento a "nomi eccellenti". Citando un magistrato di Reggio, il quotidiano aveva affermato che i nomi "riguardano Messina, Reggio, Roma, Milano e perfino Lugano" [Rep, 22 gennaio 1994].

Il "Giornale di Sicilia" riporta considerazioni analoghe:

"[...] Ancora non sono state valutate le dichiarazioni di nuovi e più eccellenti pentiti, di Gaetano Costa boss della mafia degli anni '80, ma soprattutto di Luigi Sparacio e del fratello Rosario, boss mafiosi di prima grandezza.

Le loro prime dichiarazioni sono sconvolgenti perché parlano di logge massoniche deviate dove pare si incontrassero mafiosi, giudici, investigatori e politici, e dove si sarebbero conclusi grandi affari. In primo luogo colossali traffici di armi, sui quali stanno indagando tra mille difficoltà i giudici di Messina." [Gds 20 marzo 94, 4]



La vicenda di Sparacio presenta almeno 4 motivi di grande interesse:

Le capacità organizzative: dopo Costa, Sparacio è il primo che riesce ad intessere legami di grande rilievo con le altre famiglie siciliane di Cosa Nostra.
2. La mobilità sociale ascendente: nato nella periferia degradata di Giostra, Sparacio si ritrova ad un certo punto un patrimonio miliardario, il possesso di quote di società, numerosi immobili, denaro liquido e beni di consumo notevoli: basti pensare al parco automobili in suo possesso.

Rappresenta un unicum nell'ambiente del crimine messinese che quasi mai è risuscito a fare il salto di qualità da mafia parassitaria, dedita soprattutto alle estorsioni ed alle rapine, ad una mafia finanziaria ed imprenditrice.

Rimane chiaramente un caso di mobilità precaria, terminata con l'arresto e dopo aver più volte sfiorato la fine tragica. Ma questo è un elemento comune a tutti i soggetti sociali che scelgono la via criminale per il loro percorso di emancipazione individuale.

3. Il lungo periodo di impunità, vero segno distintivo del mafioso di alto rango, colui cioè che riesce ad intessere attorno a sé una rete di protezioni altolocate che gli garantiscono l'immunità.

4. Il "salto" di Sparacio è stato possibile grazie ad una diversificazione delle attività criminali, alla loro ottimizzazione in maniera da ottenere il massimo profitto (si pensi al sistema definito "Piraña", v. *), al reinvestimento degli utili nelle attività legali.

Per ciò che riguarda i legami con le altre mafie, Sparacio ha raccontato alla DDA di Palermo persino dell'intenzione di uccidere Nitto Santapaola da parte dei Corleonesi. A lui si sarebbe rivolto Riina mediante un intermediario, affinché fornisse notizie sul nascondiglio nel messinese (tra Barcellona e Gaggi) del boss latitante di Catania.

Il rapporto tra i clan di Giostra e gli esponenti di Cosa Nostra palermitana è saldo ed intenso:

"Mentre il Greco si fa vedere accanto a Gerlando Alberti, Aglieri s'incontra più volte con l'allora boss di Giostra Mario Marchese e con l'emergente Luigi Sparacio.

In una stanza dell'hotel Riviera di Messina i due stringono un patto d'acciaio che regolerà sino al '92 i traffici di eroina da Palermo ai Peloritani. Periodicamente giungeranno in città ingenti quantitativi di droga che saranno smistati al consumo da piccoli manovali e tossici, mentre una quota finirà direttamente ai gruppi catanesi capeggiati da Salvatore 'Turi' Cappello e Giuseppe Pulvirenti "u malpassotu". Marchese con il suo gruppo si farà garante della protezione dei familiari di Pietro Aglieri e dei suoi più stretti collaboratori (Giuseppe La Mattina) quando essi giungono nello Stretto per risiedere al Riviera. La Santa Alleanza del gruppo Aglieri-Greco con il clan di Giostra comporterà l'uccisione a Milazzo dell'ambulante Santo Stramandino, reo di uno "sgarbo" alle famiglie palermitane in un affare di droga" [Comitato per la pace - Ass. "Rita Atria" 1997, 33].

Sono molti ed intensi i legami tra Sparacio e la mafia catanese. Sparacio conferma di essersi interessato su richiesta di Francesco Mangion a far finire le estorsioni del clan Chiofalo a Barcellona a danno dei fratelli Costanzo, protetti da Nitto Santapaola. Nella sentenza di Orsa Maggiore si afferma:

"[...] Il collegamento più stretto [rispetto agli altri clan cittadini] con la famiglia catanese di Cosa nostra fu costituito da Luigi Sparacio, il quale tramite il Romeo entrò in contatto sin dalla fine degli anni '70 con gli esponenti di vertice del clan catanese.

Lo Sparacio infatti rappresentò per lungo periodo il referente di Cosa nostra catanese a Messina. Riferisce lo Sparacio che dopo aver conosciuto a Messina verso la fine degli anni '70 in occasione del processo a carico di Santapaola Antonino, Santapaola Benedetto, Mangion Francesco, Ercolano Aldo, Santapaola Vincenzo (nipote di Benedetto), Ferrera Natale, Pappalardo Salvatore e Di Raimondo Natale, i suoi incontri con gli uomini d'onore catanesi divennero frequenti, tant'è che in diverse occasioni lo stesso Sparacio venne a Catania per incontrarsi con gli esponenti di rilievo di Cosa nostra catanese.

In uno di questi incontri Santapaola Benedetto aveva chiesto allo Sparacio se fosse stato disponibile per l'uccisione di Ferlito Alfio [...]; ma dopo non se ne fece più niente.

Sempre in questi anni, '81/'82 Ercolano Aldo e Santapaola Vincenzo offrirono la loro disponibilità per aiutare lo Sparacio, il quale stava sostenendo a Messina una faida contro gruppi contrapposti.

Negli anni successivi lo Sparacio venne incaricato dai catanesi di seguire e "controllare", presso le organizzazioni criminali messinesi, le vicende relative ai cantieri aperti nel territorio messinese dalle ditte protette dalla famiglia catanese.

Per svolgere tale attività lo Sparacio aveva frequenti contatti con Santapaola Salvatore e soprattutto con Galea Eugenio, il quale in diverse occasioni ebbe a consegnargli cospicue somme relative alla 'protezione dei cantieri'" [OM 1997, 309 sgg].

I legami con i catanesi vengono descritti nei particolari (attraverso le dichiarazioni di Sparacio e Cariolo), e si intuisce il ruolo della criminalità etnea nel salto di qualità compiuto dalle cosche messinesi:

"Nel 1987 Cariolo entra ufficialmente nel clan di Sparacio Luigi, e afferma che tutto quello che sa del Romeo (interventi, estorsioni, intimidazioni, etc.) gli è stato riferito da quello; il collaborante descrive tuttavia per scienza diretta, in maniera particolareggiata se pure frammentaria, la presa di potere del clan Santapaola a Messina, attraverso appunto il controllo della cosca capeggiata dallo Sparacio. Nel travaglio che portò al nuovo equilibrio, hanno tanta parte Romeo e Aldo Ercolano.

Sparacio Luigi si sofferma sulla sua carriera di malavitoso messinese e pone l'accento sul fatto che per lui fu un privilegio conoscere Santapaola Benedetto, la cui fama di personaggio eminente di cosa nostra siciliana, correva tra i malavitosi di quella Città, che non erano tanto stimati né dai catanesi né dai palermitani: ebbene, egli fu presentato all'illustre capo proprio dal cognato Romeo, al tempo in cui a Messina si celebrava un processo contro alcuni congiunti e amici del Santapaola e questi e altri suoi eminenti amici venivano continuamente a Messina per assistervi.

Peraltro esso Sparacio conosceva da tempo il Romeo che si era rivolto a lui per sistemare una estorsione ai danni di un commerciante suo amico, e in effetti egli si era interessato e aveva poi chiesto al grato Romeo di presentarlo al Santapaola.

Sparacio descrive quindi le tappe della sua carriera, parla delle conoscenze fatte con le persone di spicco del clan e della sua creazione a uomo d'onore, la sua ascesa sino a diventare capo di un gruppo autonomo coincide con l'aumento del potere di controllo dei catanesi sul territorio di Messina:...

'Loro avevano su Messina diverse ditte di appalti: ed io ... mi hanno interessato a controllare queste ditte'. A cavallo del 1990 ebbe perciò numerosi rapporti con Aldo Ercolano ed Eugenio Galea e Romeo passava gli appuntamenti quando i catanesi andavano a Messina" [OM 1997, 636 sgg.].

Si intrecciano quindi azioni comuni, alleanze e patti incrociati; la criminalità messinese appare così interrelata con le analoghe organizzazioni catanesi e palermitane:

"Nel 1983 Cariolo visse in prima persona l'omicidio di certo Badessa Domenico, detto Mommo, noto personaggio della malavita messinese, nell'ambito dei contrasti tra gruppi locali, per favorire l'ascesa di Domenico Cavò, uomo gradito a Cosa nostra palermitana.

Per eseguire l'omicidio, uomini di Cosa nostra catanese "praticamente Aldo Ercolano, tramite di Benedetto Santapaola" si appoggiarono a Romeo Francesco: esso Cariolo partecipò all'azione insieme a Michele Mascali "il Cursoto" successivamente ucciso dalla stessa organizzazione, e dell'omicidio fu accusato certo Mario Privitera che vi aveva pure partecipato e che fu processato e condannato; la madre e la moglie dell'ucciso avevano infatti visto il Privitera che era andato a prelevare la vittima a casa, e lo avevano apertamente accusato. Vennero a Messina il Malpassoto con un suo amico e Francesco Mangion, e Romeo procurò un incontro dentro l'ospedale Piemonte, con i familiari dell'ucciso che furono portati da Sparacio; parteciparono pure un altro messinese ed esso Cariolo, con mansione di guardaspalle.

Al tempo Romeo che era amico del Cavò divenne amico di Sparacio. Essi si chiamavano compari.

Afferma il dichiarante di avere preso parte ad altro delitto, sempre negli stessi anni, per l'esecuzione del quale ebbe a sparare: si trattò di un'azione di intimidazione nei confronti di un commerciante di frutta, eseguita insieme a un ragazzo venuto da Catania e su mandato di Romeo, il quale curò quindi il suo temporaneo allontanamento da Messina: venne perciò a Catania dove stette nascosto per un giorno e mezzo presso lo stabilimento Avimec di Ercolano Giuseppe, padre di Aldo" [OM 1997, 636 sgg].



I concetti espressi al punto 3 saranno trattati nei paragrafi dedicati alle attività economiche del clan Sparacio.

Per il momento, possiamo anticipare l'analisi delle attività illegali tradizionali.

E' innanzitutto da segnalare un episodio che indica come la violenza sia stata utilizzata come regolatrice dei rapporti economici: Sparacio è stato condannato nell'aprile 96 a nove anni di reclusione per l'omicidio del commerciante barcellonese Nicolino Cambria, ucciso nell'autunno del 1983 a San Licandro.

In veste di collaboratore, Sparacio ha rivelato che l'assassinio si spiega con l'attività del commerciante, il quale curava la raccolta degli scarti della macellazione delle carni, ovvero ossa e pelle che venivano poi sciolti per farne grasso. Da qualche tempo aveva esteso la sua attività a Messina intralciando così l'operato di Santo Santamaria che aveva (ed ha attraverso il figlio titolare della Messina Grassi) una specie di monopolio. Costui si rivolse allora a Placido Cambria. Pare che Nicolino Cambria vantasse la protezione di Luigi Galli.

Droga: il clan Sparacio acquistava cocaina in Calabria ed a Palermo per rivenderla in città. La merce veniva abitualmente nascosta nella villetta di Rodia. Sparacio è stato definito "uno dei più grandi azionisti del mercato della droga della città di Messina [e della] provincia" [SP 1993, 6].

Il sistema dello spaccio era rigidamente organizzato, sia per quanto riguarda le zone di competenza dei rispettivi clan, sia per ciò che concerne i compiti di ciascun affiliato. Ogni violazione veniva punita nella maniera più feroce possibile:

"[...] Rubò un chilo di cocaina nella villetta del presunto capo della mafia messinese, Luigi Sparacio. Domenico Caminiti pagò con la vita lo "sgarro". Smascherato, venne attirato in una trappola, fatto a pezzi con una fucilata, bruciato e seppellito in una campagna di contrada Mezzana. [...]

Il furto che costò la vita a Domenico Caminiti fu compiuto nel maggio del 1989. Il giovane era un "picciotto" del clan di Sparacio e sapeva molte cose sui traffici illeciti della cosca. Caminiti fu informato che al boss era stato consegnato un grosso carico di "neve", un chilo, da uno dei corrieri che andavano periodicamente a rifornirsi in Calabria e a Palermo. La droga venne nascosta nella villetta di Rodia personalmente dal capo, il quale si riteneva evidentemente al sicuro da irruzioni.

Probabilmente Sparacio non prese nemmeno in considerazione l'ipotesi che qualcuno potesse "soffiargli" la roba. Il boss dovette però ricredersi: la busta con la droga spari. Il capo si infuriò: in gioco non c'era solo la droga, che valeva circa cento milioni, ma il suo prestigio. Sparacio convocò gli uomini più fidati e avviò un'inchiesta serrata. Alla fine qualcuno spifferò al capo che a rubare la cocaina era stato Caminiti.

Il boss incaricò Villari, Giorgianni e Trischitta di portargli Caminiti. La vittima predestinata venne "agganciata" con un pretesto il 30 maggio e condotta in via Boner, poi fu caricata su un'auto, che parti verso la zona nord.

La vettura si arrampicò su una stradina a Mezzana, nei pressi di Tono, e si fermò in aperta campagna, in una zona disabitata. Caminiti venne fatto scendere e interrogato; le sue proteste d'innocenza non vennero prese in considerazione.

Uno dei quattro impugnò un fucile a canne mozze e gli sparò una scarica al volto da distanza ravvicinata.

La testa del giovane venne letteralmente disintegrata. I sicari scavarono una fossa, non molto profonda, e seppellirono il cadavere, dopo averlo bruciato; quindi si allontanarono a bordo della stessa automobile.

Il corpo senza vita di Caminiti venne trovato il 19 giugno dai carabinieri, i quali furono avvertiti da una telefonata anonima. Il cadavere era in avanzato stato di decomposizione: soltanto due giorni dopo la sorella e lo zio lo riconobbero da alcuni indumenti (i calzini, i jeans e la maglietta grigia con strisce gialle sulle maniche) e dall'orologio che aveva al polso." [Gaz 14 maggio 1995, 5]

Estorsioni: Si tratta di un settore privilegiato delle attività del clan. Si inserivano tuttavia in un quadro più 'evoluto' rispetto alla tradizionale esazione parassitaria: avevano infatti prevalentemente il fine di entrare in possesso dei beni economici delle vittime.

Inoltre, il riconoscimento formale del clan Sparacio come referente locale della famiglia catanese di Cosa Nostra, attribuiva alla cosca di Giostra il diritto di esazione sulle imprese protette da Santapaola:

"Lo Sparacio a tal proposito riferisce diversi episodi, tutti inerenti alla consegna di somme di denaro che il Galea faceva personalmente allo Sparacio in relazione ai cantieri aperti nel messinese dalle imprese "protette" dalla famiglia catanese; e così il collaborante riferisce della ditta Costanzo, della ditta Li Gresti, della ditta Di Penta; precisa Sparacio che i soldi che il Galea gli corrispose ammontavano a diverse centinaia di milioni; tali somme venivano consegnate in diverse soluzioni, ognuna delle quali si aggirava in media sui venti milioni" [OM 1997, 666 sgg.].

"Per quanto riguardava l'esazione delle tangenti, l'organizzazione seguiva le regole già viste altrove: il clan riscuoteva dai costruttori che avevano preso appalti a Messina e versava ai clan locali: una volta - dice Cariolo - questo compito lo ebbe Romeo [cognato di Santapaola e residente a Messina] che diede i soldi a Sparacio, affinché fossero divisi tra le tre cosche messinesi: si trattava di 200 milioni relativi alla costruzione di un campo sportivo" [ibidem, 636 sgg.]..

Bische clandestine: si è già detto del circolo "il Gabbiano" a proposito del clan Galli: si trattava di una copertura per il gioco d'azzardo controllato dalla mafia messinese.

I clan cittadini avevano affidato il controllo delle bische a Giuseppe Giannetto, che provvedeva alla distribuzione degli utili tra i vari clan. Ovviamente, la ripartizione del denaro generava liti e contrasti, oltre che tentazioni egemoniche.

Così, nel 1989 Sparacio ordina l'eliminazione di Giannetto ed assume di fatto la titolarità del "Gabbiano" a partire dal 1990.

In precedenza, infatti, i soci del circolo gestivano il gioco d'azzardo e pagavano una tangente del 30 % alla criminalità organizzata. Sparacio pretende invece l'80 % degli introiti per sé, riservandosi di corrispondere ai soci una liquidazione di 10 milioni più il 20 % rimanente, come rimborso delle spese per il mantenimento della struttura [MT 1996, 39].

Il circolo, specie nel periodo delle feste natalizie, era fonte di notevoli guadagni. Inoltre, si sarebbe avvalso di una rete di appoggi istituzionali che ne permettevano le attività al riparo dall'intervento delle 'forze dell'ordine'.

Sparacio ha accusato in tal senso il dirigente della Mobile Montagnese, colpevole a suo dire di aver omesso di effettuare irruzioni in cambio di denaro. Le accuse di Sparacio sono state ritenute del tutto infondate. Nella sentenza di assoluzione nei confronti di Montagnese, tuttavia, c'è un riferimento agli "appoggi dei quali beneficiava il Luparelli, presidente del [circolo il Gabbiano], presso l'Arma dei Carabinieri" [MT 1996, 40].

Questo aspetto non è stato troppo approfondito: è però ipotizzabile che per molto tempo (almeno tra la metà degli anni '80 e l'inizio dei '90) la mafia messinese e le attività criminali in genere abbiano goduto a Messina di rilevanti protezioni anche in settori delle istituzioni e di una sostanziale legittimazione, dovuta probabilmente al ruolo economico e politico che è riuscita a rivestire.

Sparacio ha anche accusato l'ispettore della Squadra Mobile Raffaele Trimigno di avere favorito la sua latitanza nel novembre 1991 rivelandogli anticipatamente l'emissione di un provvedimento di custodia cautelare per estorsione ed usura; in cambio Sparacio gli avrebbe fornito una Fiat Panda usata, prelevata dalla concessionaria Essecar. I magistrati hanno anche contestato all'imputato di aver tentato di influenzare Sparacio contattando il nipote e incaricandolo di dire al pentito di stare attento e di non chiamarlo in causa. Accuse a Trimigno sono arrivate anche dal pentito Carmelo Ferrara.

Il primo dicembre del 1994, Trimigno ha dovuto rispondere in tribunale di corruzione e violazione del segreto d'ufficio. Il poliziotto era stato arrestato il 7 aprile e rinchiuso in un carcere militare. Secondo il difensore di Trimigno, l'avv. Stroscio, Sparacio avrebbe accusato il poliziotto solo per togliersi un "sassolino dalla scarpa": voleva vendicarsi per le indagini che Trimigno aveva eseguito sul suo conto.

La Panda, inoltre, ha affermato Stroscio, fu comprata dal suocero dell'imputato per consentire alla figlia di andarlo a trovare. L'ispettore è stato scarcerato il 25 maggio scorso su decisione del gip per "cessate esigenze cautelari" [cfr. Gaz 2 luglio 94, 6].

Per quanto le singole responsabilità non siano state accertate, rimangono le anomalie e le stranezze che rendono quanto meno opachi i rapporti tra Sparacio e parte delle istituzioni.

Questi ed altri elementi della vicenda di Sparacio suggeriscono l'ipotesi per cui il boss di Giostra, oltre ad un sistema economico di rilievo, abbia saputo intessere intorno al suo clan una rete di protezioni che ne hanno garantito a lungo l'impunità (non solo Sparacio sarebbe stato avvertito di indagini a suo carico, ma anche del suo cellulare sotto controllo e delle microspie inserite nel carcere di Gazzi).

"Si può tranquillamente affermare che la sua figura di boss sia l'unica nella città di Messina ad avvicinarsi allo stereotipo del 'boss mafioso' dalle mani pulite.

Difatti lo Sparacio sta riuscendo con notevole scaltrezza, avendo compreso l'importanza di tale passo, a permeare il tessuto socio-economico della città di Messina, frequentando anche i salotti bene, stringendo amicizie con insospettabili, nel tentativo di scrollarsi di dosso l'etichetta del 'delinquente' per assumere quella più comoda dell''onesto cittadino' vittima ingiustificata delle attenzioni delle Forze di Polizia e della Giustizia.

Sintomatica al riguardo è l'iscrizione dei figli al collegio 'Ignatianum', scuola frequentata per antonomasia da ragazzi di buona famiglia." [SP 1993, 4-5].





Il clan di Mangialupi

La nascita del gruppo di Mangialupi è da far risalire alle vicende del clan Costa negli anni tra il 1982 ed il 1984. In quel periodo il referente dell'organizzazione Costa per tutta l'area di villaggio Aldisio era Giuseppe (Pippo) Leo.

Subito dopo il maxi-processo Leo mise in piedi un clan che aveva la sua base nelle zone di villaggio Aldisio e Santo-Bordonaro, nei pressi dello svincolo autostradale di Messina - Gazzi.

Leo era stato più volte inquisito, ma fino al maxi-processo non aveva subito condanne. Riuscì a cavarsela scontando appena due anni. Nel 1988, quando ormai il suo potere sembrava consolidato, subì un primo attentato di fronte al supermarket gestito dai genitori al villaggio Aldisio. Diverse persone furono ferite, Leo ne uscì illeso. Nel settembre del 1990, Leo fu ucciso in casa sua, da un killer che conosceva e che aveva fatto entrare in casa. Bevvero insieme qualcosa, quindi il killer gli sparò all'improvviso con una calibro nove. Il posto di Leo fu preso da Giorgio Mancuso, protagonista di una rapida ascesa nel mondo criminale: Mancuso si caratterizzò subito per metodi particolarmente violenti, perturbatori di già fragili equilibri: gli altri boss reagirono con una nuova campagna di sangue uccidendo molti uomini di Mancuso.

La storia del clan di Mangialupi segue una via parallela a quella del clan Leo-Mancuso: tra l'85 e l'87, in coincidenza con la dissoluzione del sistema Costa, il gruppo di Mangialupi guidato da Salvatore Surace si sgancia infatti da Leo.

Nel 1980, proprio Leo aveva iniziato Surace nel carcere di Messina, durante un rito in cui era stato conferito il grado di camorrista. Surace era stato premiato per i trascorsi criminali a Milano, saltando un gradino. Nel giro di pochi anni, giungerà fino al massimo livello, quello di santista [cfr. ML 1996, 85 sgg].

Ma il risultato di maggior rilievo sarà la costituzione di un proprio clan operante in tutti i settori criminali. Così come il clan Costa, anche il gruppo Mangialupi aveva una gestione centralizzata dei proventi del crimine: in particolare, veniva assicurata l'assistenza degli affiliati detenuti, mentre quelli in libertà si spartivano il ricavato delle azioni compiute.

Il nome del gruppo fa riferimento al quartiere Mangialupi, situato nei pressi dello svincolo autostradale di Gazzi. La denominazione deriva dal fatto che la maggior parte degli associati abitavano in quel rione: il clan, tuttavia, operava in tutta la città negli spazi lasciati liberi dagli altri gruppi. Il prestigio criminale di Surace ed una sapiente politica di alleanze ed accordi hanno permesso al gruppo di Mangialupi di star fuori da tutte le guerre di mafia che hanno insanguinato la città.

Il rione Mangialupi è una zona economicamente depressa, e i proventi delle estorsioni limitati a quel quartiere sarebbero stati irrisori [ibidem, 102 sgg].

L'attività principale della cosca, infatti, consisteva nel taglieggiamento degli esercizi commerciali. Tra questi, solo il supermercato 3/A era ubicato nel quartiere Mangialupi. Gli altri, erano per lo più negozi del centro cittadino.

Tra questi, è da segnalare l'estorsione ai danni dell'esercizio "Chirico": per la rilevanza che assume nell'àmbito dei rapporti tra criminali ed imprenditori nell'area messinese, si rimanda al paragrafo 2.2.2 per una descrizione dettagliata della vicenda. Identico discorso per le estorsioni ai danni dei cantieri edili Giuffrè e della rosticceria Nunnari.

Per il resto, ogni estorsione fruttava in media la somma mensile di un milione. Il clan svolgeva un ruolo d'ordine, garantendo la protezione da altri gruppi criminali: spesso sono gli stessi imprenditori a rivolgersi a Surace per ottenere protezione.

In caso di estorsioni co-gestite, gli utili vengono spartiti con altri clan. Si prestava grande attenzione alla divisione del denaro, al fine di evitare inutili contrasti.

Di grande interesse è l'estorsione al supermercato 3/A del rione Mangialupi. Nella notte tra il 27 ed il 28 dicembre del 1990, alcuni uomini mettevano in fuga Vincenzo Bondini, guardia della 3/A, e lanciavano un ordigno esplosivo all'interno di un reparto, provocando gravi danni.

Si trattava palesemente di un attentato a fini di estorsioni, operato dalla cosca Mangialupi all'interno del proprio quartiere. Niente di particolare, all'apparenza. Ma i responsabili del supermercato negavano la matrice estorsiva. L'esercizio, circa mille metri quadri, era stato inaugurato da appena dieci giorni.

L'aspetto più inquietante della vicenda è che il supermercato 3/A era di proprietà dei fratelli Costanzo di Catania, notoriamente protetti dalla cosca Santapaola. Proprio il cognato di Santapaola, Francesco Romeo, era tra le persone attivate nelle trattative tra Mangialupi e catanesi. Romeo, nato e vissuto a Messina, è ritenuto dai giudici di Catania [cfr. OM 1997, 836 sgg] "l'organizzatore delle intraprese della famiglia catanese" nella città peloritana, oltre che evidentemente il punto di contatto tra catanesi e messinesi.

L'attentato aveva il fine di riportare il controllo del clan sul proprio quartiere e di ammorbidire la concorrenza del 3/A nei confronti del supermercato aperto dalla famiglia Trischitta a Villaggio Aldisio, nei pressi del rione Mangialupi.

L'iniziativa dell'attentato era stata presa dalla dirigenza del clan, escluso Surace che si trovava in carcere e lì avrebbe appreso dell'accaduto.

Le trattative si erano concluse positivamente per il gruppo messinese: i Costanzo avrebbero pagato tra 20 e 30 milioni subito e circa 1 milione e mezzo al mese [cfr. ML 1996, 131 sgg].

Emerge quindi l'ennesimo salto di qualità della mafia messinese, capace di imporre la propria signoria territoriale anche alla più potente organizzazione criminale della Sicilia orientale.

Uno dei principali settori di attività del clan di Mangialupi è quello delle rapine. Si tratta in genere di atti compiuti contro uffici postali, condotti secondo metodi tipici.

Di un certo interesse, invece, è la verifica dei ricavi che da questa attività il clan poteva ottenere. Si evince che il calcolo costi/benefici è a sfavore di questo tipo di attività: spesso le rapine fallivano, gli autori venivano individuati dai testimoni (Surace stesso subisce una condanna in seguito ad una rapina), talvolta si verificano conflitti a fuoco con poliziotti, carabinieri o guardie giurate; infine, i ricavi non sono certo proporzionati ai rischi.

Si configura quindi un elemento 'tradizionale', la persistenza di un'attività che mafie più "moderne" di quella messinese hanno da tempo accantonato o messo in secondo piano rispetto ad altri, ben più convenienti, settori di attività.

Tra la fine degli anni '80 e l'inizio dei '90, aumentano in maniera considerevole gli introiti: parallelamente, tuttavia, crescono i rischi: durante la rapina del '91 a Giardini, uno dei rapinatori - Giuseppe Aspri - viene ucciso nel corso di un conflitto a fuoco con la polizia.

E' importante anche il fatto che gli uomini di Mangialupi operavano in una ampia zona, senza alcun vincolo territoriale: i luoghi scelti per le rapine si trovavano in pieno centro cittadino, in periferia, così come nei paesi della provincia (con l'ovvia esclusione dei territori tirrenici controllati dai barcellonesi). Questi elementi saranno ancora più apprezzabili osservando l'elenco delle rapine attribuibili con certezza al clan di Mangialupi.



Le rapine del clan di Mangialupi [cfr. ML 1996, 149-236]

data
obiettivo
luogo
ricavato

21 luglio 1980
agenzia 4 banco di Sicilia
centro cittadino
40 milioni

19 maggio 1980
ufficio postale n.6
v.le regina margherita
15 milioni

16 settembre 1982
scalo ferroviario
pace del mela (me)
fallita

4 ottobre 1982
ufficio postale
v. del santo
37 milioni

15 ottobre 1982
ufficio postale n.4
v. t. cannizzaro
fallita

14 ottobre 1982
ufficio postale n.1
v. n.fabrizi
fallita

17 settembre 1982
banca agricola commerciale
contesse
17 milioni

5 aprile 1983
banca pop. santa venera
roccalumera (me)
fallita

16 maggio 1983
ufficio postale
villaggio aldisio
fallita

24 giugno 1983
deposito automezzi pp.tt.
bisconte
20 milioni

11 luglio 1983
banco di Sicilia
giammoro (me)
7 milioni

21 agosto 1984
vagone postale treno me-pa
stazione di camaro
40 milioni

13 ottobre 1987
ufficio postale
via vecchia comunale
fallita

2 novembre 1987
banca naz. delle comunicazioni
piazza stazione
227 milioni

15 giugno 1988
furgone postale
via catania
120 milioni

31 ottobre 1988
banca di credito popolare
via XXVII luglio
40 milioni

28 marzo 1989
banco di credito siciliano
letojanni (me)
fallita

30 luglio 1990
banco di Sicilia
s.agata militello (me)
fallita

26 novembre 1990
monte dei paschi di siena
contesse
122 milioni

3 gennaio 1991
monte dei paschi di siena
venetico marina (me)
93 milioni

28 gennaio 1991
banco di Sicilia
giardini naxos
70 milioni

28 maggio 1991
banco di Sicilia
s. teresa di riva
60 milioni




Le attività criminali del gruppo Mangialupi necessitavano di adeguati rifornimenti di armi. Così come per la droga, gli acquisti venivano effettuati in Calabria, in particolare a Rosarno. I mitra e le pistole acquistate venivano poi nascoste nelle abitazioni degli affiliati [cfr. ML 1996, 243].

La droga proveniva in genere dalla Calabria, come detto. Ma in almeno un'occasione la latitanza di Surace a Milano aveva fornito la possibilità di creare un nuovo canale di approvvigionamento. Nel marzo del '93 un chilogrammo di eroina proveniente dalla Turchia e pagata con 60 milioni, viene trasferita da Milano a Messina [cfr. ML 1996, 252].

Ultima attività di rilievo attribuita al clan di Mangialupi è la gestione di una bisca clandestina, per un periodo dal 1989 al '91/'92, in un locale di proprietà di Domenico La Valle. La bisca era attivata per circa un mese all'anno, in occasione delle feste natalizie. Un esponente del clan controllava il corretto comportamento dei giocatori, impegnati in partite di zecchinetta ed altri giochi d'azzardo.

Proprio l'accanimento dei giocatori era alla base dei notevoli guadagni della bisca: appena qualcuno perdeva e non aveva più denaro per continuare a giocare, la cassa forniva soldi ad usura con altissimi tassi.





Il clan del Cep

La vicenda del clan del Cep coincide in gran parte con quella del suo padrino, Sebastiano (Iano) Ferrara.

Condannato nel maxi-processo del 1986, Ferrara è indicato dal pentito Insolito come "uomo fidato di Placido Cariolo, il capo" (udienza del 30 ottobre 1986). Tuttavia, in appello Ferrara viene assolto.

E' stato accusato di diversi omicidi, alcuni dei quali attribuitigli ancora da Insolito:

"E' stato tra i killer di Francesco D'Amico, detto 'Nunnari' per il suo passato di dipendente della rosticceria. E' stato ucciso senza colpe, solo perché era il 'figlioccio' di Domenico Di Blasi che in quel periodo (1981) era latitante e inseguito dagli uomini di Cariolo che volevano ucciderlo. D'Amico che era fuori dai nostri giri, non sapeva dove il suo 'padrino' si nascondesse. Non gli credettero: Salvatore Pimpo e Rosario Rizzo lo tenevano fermo, mentre Sebastiano Ferrara gli sparava addosso".

Insolito accusa Ferrara anche dell'omicidio di Melchiorre Zagarella e di Pietro Brugarello, 'figlioccio' di Giuseppe Leo. "Questa volta Ferrara agì insieme con Rosario Gambadoro, Antonino Zirilli e Giuseppe La Fauci".

Nel marzo del 1992 la procura di Reggio emette un ordine di carcerazione per cumulo di pene: inizia così la latitanza di Ferrara che si concluderà solo con l'arresto al Cep del 1994.

Il 7 maggio del '93 viene emesso l'ordine di custodia inerente l'Operazione Peloritana. Alla vigilia dell'arresto, nei primi giorni del marzo 1994, viene ordinata la cattura di Ferrara per l'omicidio di Giuseppe Vento, braccio destro di Giorgio Mancuso, ucciso nel luglio '92.

Il 17 maggio 1996, il padrino del Cep, subisce una nuova condanna quale mandante degli omicidi di Antonino Mascinà e Antonino Durante, i cui corpi non sono mai stati ritrovati. Gli assassinii risalgono al settembre 1992.

Il 28 marzo del 1994 Ferrara viene arrestato al villaggio Cep, in un sotterraneo ricavato nei pressi della sua abitazione. Una piccola folla si mise ad applaudirlo mentre i poliziotti lo trascinavano via. Quattro giorni dopo, parte degli abitanti del quartiere si raccolsero davanti al Palazzo di giustizia per esprimere la loro indignazione: 300 persone (120 secondo la polizia) solidali col mafioso, in testa il parroco don Caizzone, che lanciò un appello a favore dell'arrestato, sottolineando "la costante maturazione spirituale e morale di Ferrara, durante la latitanza".

Il parroco manifestò inoltre la speranza che "la giustizia non si faccia bendare gli occhi o turare gli orecchi aprendoli a testimoni interessati o a falsi pentiti".

La cronaca del quotidiano locale esprime sdegno formale nelle pagine interne, mentre in prima pagina racconta che i manifestanti non hanno creato "nessun intralcio" manifestando a favore del "presunto boss". L'articolo prosegue preoccupandosi per l'immagine della città, danneggiata dalle televisioni che riprendono il "popolo contro i giudici e contro i pentiti (della malavita)" [Gaz, 2 aprile 1994, 1].

Gli abitanti del Cep - intervistati dal cronista - attribuiscono numerosi meriti a Ferrara: "le donne hanno sottolineato il cambiamento avvenuto: bambini che vanno tranquillamente a scuola, ragazze che possono passeggiare senza che alcuno rechi loro disturbo; gli scippi si possono contare sulle dita così come le auto incendiate, droga e spacciatori inesistenti" [ibidem].

Il volantino anonimo distribuito durante la manifestazione invitava "ad una pacifica e solidale dimostrazione di affetto e di gratitudine nei confronti del nostro amico fraterno Iano Ferrara".

Le testimonianze confermano che il clan Ferrara aveva organizzato un vero e proprio servizio di vigilanza all'interno della propria zona di competenza. Dal punto di vista economico si caratterizzava per le attività estorsive. Si delineano così i principali caratteri della cosca del Cep:

funzione d'ordine, col divieto di attività criminali all'interno della zona controllata, ed esportazione delle attività (omicidi, estorsioni, spaccio) all'esterno. Si crea così un solido consenso sociale basato sulla dicotomia dentro/fuori: nella propria zona di residenza deve essere assicurata la sicurezza della vita e dei beni (non importa con quali mezzi); ciò che accade all'esterno, invece, è indifferente.
Si conferma così il ruolo d'ordine della mafia, contro le interpretazioni che la vorrebbero forza eversiva e perturbatrice dell'ordine sociale;

2. ruolo politico: funzione di raccolta del consenso elettorali e relazione di scambi con esponenti istituzionali (v. paragrafo 2.2.1);

3. esazione coatta connessa alla signoria territoriale: nella zona Sud, dal Cep a Tremestieri, gli esercizi commerciali e le attività economiche subivano estorsioni sistematiche.



Particolarmente interessante è il caso dello stadio comunale "Giovanni Celeste", che ricade nella zona di competenza del Cep.

Lo Presti, impiegato del Comune con l'incarico di custodia dello stadio "Giovanni Celeste", è stato accusato nel 1996 di aver chiesto 2 milioni a partita all'As Messina (una formazione del campionato nazionale dilettanti) in cambio della "protezione" offerta dal clan del Cep. Il pentito Ferrara, ex boss del Cep, ha confermato di aver ricevuto il denaro (anche se inizialmente Lo Presti faceva il suo nome senza 'autorizzazione') ed ha affermato che anche negli anni precedenti l'ACR Messina della gestione Massimino pagava il pizzo ai vari clan cittadini, capeggiati al tempo da Pippo Leo e Mario Marchese [Gaz 24 marzo 96].

Ferrara teneva molto al rapporto col mondo calcistico messinese, anche in funzione del consenso sociale che è una degli elementi principali che emergono dalla sua vicenda.

Letteria Palmieri, moglie di Ferrara, ha dichiarato ad un settimanale messinese, subito dopo l'arresto del marito: "Ultimamente mandavamo avanti la famiglia grazie agli introiti del ristorante che mio cognato ha continuato a gestire fino a pochi mesi fa. Era molto frequentato. Ci andavano spesso anche i giocatori della squadra di calcio del Messina" ["Centonove" 9 aprile 1994].

Quindi, durante la latitanza di Iano, i giocatori dell'Acr non ritenevano inopportuno sedersi ai tavoli del locale gestito dal fratello di un latitante, e che comunque manteneva dei rapporti con la famiglia del congiunto.

Ma il tipo di rapporti - quasi di tipo "colombiano" - tra la squadra di calcio messinese ed un boss mafioso è chiarito da un interessante episodio raccontato durante un dibattito su "Sport e mafia" organizzato dai Verdi il 15 marzo 1996, subito dopo l'ondata di arresti dell'inchiesta sull'As Messina.

Durante la stagione calcistica 1988/89 (l'anno del tecnico Zeman), un giornalista sportivo dell'emittente televisiva Telespazio (allora del gruppo di Aldo Cuzzocrea), aveva realizzato un servizio in cui riservava una battuta ironica al calciatore dell'ACR Giacomo Modica, che aveva calciato malamente un tiro al volo ("Modica tira: meta!").

Dopo un paio di giorni, Iano Ferrara ed altri componenti del suo gruppo si presentano nei locali dell'emittente televisiva. Si siedono in una stanza con l'incauto giornalista per un 'chiarimento'. Il cronista si impegna a chiedere scusa pubblicamente al calciatore e Ferrara ed i suoi uomini vanno via soddisfatti.

Circa un anno dopo la cattura di Ferrara, nel corso dell'operazione denominata "Bull", viene arrestato il nuovo boss del Cep, Tamburella (già vice di Ferrara), ed i nuovi gregari, accusati di gestire il racket delle estorsioni in buona parte della zona sud.

La vicenda dimostra la scarsa efficacia di un'azione esclusivamente repressiva: dopo gli arresti dei principali boss, la criminalità messinese è sempre attiva, e nelle zone degradate i clan si ricostituiscono in tempi brevissimi, essendo rimaste immutate le condizioni socio-economiche che producono la delinquenza.

Nel processo che ne segue, il Comune si costituisce parte civile. Per la prima volta, un vittima denuncia gli estortori. I 6 imputati vengono condannati in primo grado a 30 anni e 4 mesi. Nasce anche a Messina, in seguito alla vicenda, una associazione contro il racket e l'usura.

Questa vicenda segna un'inversione di tendenza, ma è anche pesante un atto di accusa nei confronti dell'imprenditoria messinese e di tutti i negozianti che costituiscono l'unica base economica su cui vive la città. Serve infatti a mettere in evidenza i silenzi, le complicità e le ipocrisie degli esercenti messinesi, preoccupatissimi dei cordoli per gli autobus e del peso del fisco, ma taciturni sul tema delle estorsioni.

Il 19 ottobre del 1997 si arriva alla sentenza in primo grado del processo denominato 'Faida', nato in seguito allo scontro tra i Pellegrino e i Vitale avvenuto nei primi anni '90. Numerosi omicidi e molti agguati, una serie di vendette reciproche tra due famiglie della zona Sud attive nel settore del movimento terra.

La catena ebbe inizio nel 1989, quando un proiettile, quasi certamente partito in maniera accidentale dalla pistola di Nicola Vitale, provocò la morte di uno dei Pellegrino.

Tra agguati, equivoci, vittime innocenti e fughe per scampare alla morte, la tragedia è andata avanti per alcuni anni tra i villaggi della zona sud di Messina intorno a Santa Margherita, mostrando un clima di ferocia e violenza che in genere non si attribuisce a questa città.

L'episodio più drammatico e assurdo è quello del 28 settembre 1990, il primo di una lunga serie: un killer si affacciò alla porta del circolo "Enilcaccia" di Santo Stefano Medio: gli avevano detto che Vitale ogni sera giocava seduto al primo tavolo. Il killer entrò e sparò senza guardare. Ma quella sera Vitale al circolo non c'era, e due innocenti che stavano tranquillamente giocando a carte morirono senza neanche capire perché.

Ad un certo punto, i Pellegrino, dopo che il loro principale avversario Nicola Vitale si era trasferito in Lombardia per sfuggire all'ennesima vendetta, si rivolsero a Iano Ferrara.

Questi mise a punto una strategia risolutiva della faida, che prevedeva l'eliminazione di tre giovani avversari dei Pellegrino.

Nel settembre del '92, i tre ragazzi furono attirati in un tranello, uccisi con un colpo alla testa e sepolti nelle campagne di Galati.

La vicenda doveva concludersi solo cinque anni più tardi, quando la sentenza del Tribunale condannava a pene pesanti i principali protagonisti della faida [Gaz 20 ottobre 97, 4].





C. "L'esercito criminale di riserva"

L'analisi sul ruolo delle periferie (intese come aree 'criminogene' in grado di fornire "manovalanza" alle cosche) nel sistema mafioso è stata affrontata nel capitolo 7, dedicato al punto di vista sociologico.

Oltre ad un inquadramento teorico generale, si è proceduto ad un esame della situazione specifica di un'area degradata di Reggio Calabria.





Periferie nell'area dello Stretto: Messina

Il discorso sulle zone di disagio e marginalità nell'area dello Stretto verrà adesso completato con l'analisi del materiale (integralmente riprodotto in appendice) ricavato da due interviste in profondità effettuate con due giovani: il primo residente nel quartiere di Camaro - San Paolo (indicato col nome di Rosario), il secondo al Cep (Mario).

Dall'analisi risulterà che non tutti i giovani di queste zone sono 'potenziali delinquenti', anzi esistono diverse energie e potenzialità individuali schiacciate o comunque messe in seria difficoltà da un contesto (a dir poco) sfavorevole.



A. Percezione della mafia

Mass media ed operatori sociali pongono l'accento sulla mafia delle periferie, quelle in cui si costituiscono centri d'intervento per salvare i "giovani a rischio".

La stampa si entusiasma per gli arresti dei boss e della manovalanza, ma è molto più cauta quando si indaga sulle banche, sulla massoneria, sui politici collusi, sul riciclaggio e sul reinvestimento del denaro, sui rapporti tra mafia e grandi imprese.

Per molti mass media i pentiti sono credibilissimi quando accusano personaggi di nessun rilievo, ma diventano improvvisamente "poco credibili" quando parlano di politici collusi e imprenditori complici.

Questa è l'ottica delle classi dirigenti. Il punto di vista nelle periferie è specularmente opposto:

"La mafia secondo me è Stato, politica; metti politica-Stato-mafia, c'è tutto un collegamento, come un ponte.

Soltanto che lo Stato, cioè i personaggi dello Stato sono tutelati La gente pensa che quello che spaccia è mafioso. No: è sbagliato, la mafia è Stato, dove c'è giro di soldi è mafia e chiaramente tu hai visto le tangenti, quelle cose, là è mafia. Che si fanno sempre sulla gente povera.

E chi la prende nel culo - scusando la frase - è sempre la gente povera, gli operai e i pensionati. [...]

Mah, nel quartiere non è che ci sia mafia, c'è quello che si sente malandrino, ma se trova la persona giusta gli finisce questa cosa qua. [...]

Se i malandrini spacciano ? Dici i ragazzi, no i malandrini. Tu dici quelli che fanno gli scaltri ? Chiaramente sì. [...] La mafia - come posso dire - mafia può essere Stato e mafia, può essere ospedale e mafia, ditta e mafia, per dire.

Ditta ? Ad esempio, magari un politico... c'è un mafioso che ha una ditta, il politico gli dà magari un appalto in una zona a quello là perché sa che è magari c'è un giro di tangenti, di cose, e questa qua è sempre mafia, è tutto un giro che non finisce mai" [Rosario, Interv2].

Due voci, una nelle periferie e l'altra nel centro, reciprocamente si accusano: "la mafia siete voi".





B. Accesso al lavoro

Come hai trovato lavoro ?

"[...] il benzinaio con mio padre che conosceva questa persona qua. Nella ferramenta un amico mio che ci lavorava prima di me e quindi mi ha fatto entrare. A corriere, a portare medicine, tramite un amico mio che conosceva questa persona qua" [Rosario, Interv2].

"Cercando sulle riviste, la rivista "Cercalavoro". Quello di portiere mi è stato avvicinato da una persona amica, questo qua [che sto facendo adesso] essendo qui dell'ambiente del Cep, [ho saputo] che era in allestimento, c'era la possibilità di inserirsi nel progetto [...]" [Mario, Interv3]..

C'è poco da aggiungere, la descrizione dei due ragazzi rende bene l'idea delle reti parentali e di amicizia che permettono l'accesso al lavoro.

Con un vantaggio e molti svantaggi. Se vieni assunto per amicizia, oppure per rispetto, perché altrimenti il richiedente "si offende", puoi trovare lavoro anche quando non c'è, nel senso che vieni assunto da chi magari non ha bisogno di altra manodopera. Anche le condizioni (contributi, sicurezza) non dipendono solo dalle esigenze dell'imprenditore ma anche da altri fattori.

Ma gli aspetti negativi sono numerosi:

- "se non conosci nessuno, se non hai la spinta, che fai, muori di fame ?" [Rosario]

- se, come spesso avviene, il territorio è controllato da un boss e da una cosca criminale, questa utilizza la "sistemazione" di altre persone come mezzo per accrescere il proprio potere, ottenere riconoscenza, creare rapporti con imprenditori;

- l'assunzione si basa sul rapporto di scambio: io faccio un favore a te, tu a me.

Così si crea una rete di dipendenze che blocca la società e cancella il conflitto, specie se la riconoscenza è dovuta ad una persona posta in posizione asimmetrica (il politico, l'imprenditore, il boss).

Diretta conseguenza del 'do ut des' è la solidarietà verticale. Se sei assunto "per favore", non puoi certo pretendere di lavorare regolarmente, di avere i contributi, di lavorare in condizioni di sicurezza; e meno che mai puoi scioperare, parlare male del proprietario, non essergli riconoscente.

E come, io ti ho assunto, e tu così mi ringrazi ?

E se in Sicilia il lavoro è travagghiu, così come a Napoli è 'a fatica, questo non è certo dovuto a pigrizia atavica, ma alla struttura sociale ed al peso della Storia.

Reti di amicizia basate sul rapporto di scambio, solidarietà verticale, uso strumentale della violenza. Sono queste le parole-chiave per rispondere alla domanda: "perché non c'è sinistra nei quartieri popolari ?" e per interpretare le considerazione di Rosario, che non attribuisce nessuna colpa agli imprenditori e se la prende con lo Stato, nonostante ammetta di essere stato sfruttato, quando lavorava alla ferramenta.

Tutto si regge sulla drammatica situazione dei quartieri di periferia:

"[Qui al Cep] molti lavorano nel campo dell'edilizia o nel campo dei negozi come commessi, e c'è molta disoccupazione.

Si arrangiano, si arrangiano anche, fanno dei lavoretti un po' saltuari, qualcuno va un po' su, magari trova lavoro, poi magari non trova l'ambiente sociale che più lo aggrada e poi torna giù. Si trova nuovamente ad implementare i ragazzi della panchina" [Mario, Interv3].





C. La famiglia

Comprensiva. Rosario definisce più volte così la sua famiglia (sia come insieme si in riferimento ai genitori).

Da ciò che si legge nel racconto, si potrebbe interpretare la definizione in questo modo: comprensiva nel senso di "comprendente", "che comprende".

Etimologicamente: cumprehendere, che significa sia "capire" che "circondare" e "abbracciare": cum + prehendere = prendere insieme.

Appena subisce il primo distacco dalla famiglia, Rosario vi fa subito ritorno. E' il primo giorno di scuola, e inizia con una fuga.

Il giorno dopo la fuga sarà tentata di nuovo e fallirà. Il distacco - minimo - si compie. Ma la famiglia rimane l'indispensabile punto di riferimento: "non fa mancare niente" nelle difficoltà, sostiene Rosario.

Dai racconti di Mario e Rosario si può capire ciò che significa passare l'infanzia in un quartiere popolare di Messina. Si comprendono quali sono i "codici rituali" e quale l'incidenza della violenza, ma anche la ricchezza delle esperienze che in qualche modo si possono fare.

"E [...] probabilmente per un carattere più debole in questa zona [credo che] crescere per strada è un problema.

Invece per me è stato un tesoro, mi ha dato la possibilità di vedere ciò che è la strada e comunque un'esperienza per non continuare a fare ciò che ha fatto altra gente con cui giocavo" [Mario, Interv3].



Dal testo si evince che la famiglia, nella situazione di Rosario (quella, cioè, dei quartieri popolari), svolge questi compiti principali:

1. Lavoro di riproduzione e cura: è affidato principalmente alla madre; in una realtà senza servizi sociali, senza socializzazione delle funzioni primarie, dove i servizi funzionano in base alla logica clientelare e strumentale e ignorano l'interesse collettivo, lo svolgimento di questa funzione da parte della famiglia permette la sopravvivenza stessa degli individui, sia nella vita quotidiana che nelle emergenze, come il terribile incidente che sconvolge l'esistenza di Rosario bambino.

2. Sostegno economico: permette a Rosario e Mario di frequentare la scuola dell'obbligo, quindi di abbandonare lavori pesanti e sgraditi ed eventualmente di frequentare i corsi professionali.

Al riparo da ristrettezze economiche troppo pesanti, Rosario e Mario possono strutturare la loro vita in maniera relativamente libera, sicuri di trovare il sostegno materiale della famiglia:

"Quando facevo il benzinaio dovevo rinunciare all'estate, lavorare di domenica. Mio fratello mi ha detto: chi te lo fa fare, te li do io i soldi" [Rosario, Interv2].

"Finita la scuola superiore ho fatto un anno di portiere di condominio, ma mi sono sentito trattato male e ho abbandonato quel lavoro, dopodiché ho fatto due corsi di informatica. [...]

Il lavoro di portiere l'ho trovato degradante" [Mario, Interv3].

E lo stesso accesso al lavoro è talvolta garantito dalle reti familiari- parentali:

"[Il lavoro dal benzinaio l'ho trovato] con mio padre che conosceva questa persona qua..." [Rosario, Interv2].

3. Protezione: in una situazione dove la violenza è sempre presente, essere conosciuto come appartenente ad un nucleo familiare, che all'occorrenza è pronto ad intervenire in soccorso, è una garanzia di incolumità:

"Ci conosciamo tutti, sanno chi sei, che questo è fratello di quello che è amico di..." [Rosario, Interv2].





D. Socializzazione

La famiglia è anche il principale tra gli agenti di socializzazione. Ha infatti trasmesso ai due ragazzi una sorta di ideologia politica che può essere definita etica dell'onestà.

I racconti del padre, la storia delle generazioni precedenti hanno avvicinato Rosario all'ideologia di destra, come lui stesso dice:

"Senza mio padre non avrei un'idea politica"

La famiglia di Mario - così come la parrocchia - frena gli "exploit" del ragazzo, lo distoglie dall'ambiente degradato del Cep e lo indirizza verso la scuola e la carriera del 'bravo ragazzo', mentre tanti suoi coetanei seguiranno una carriera ben diversa...

In famiglia viene insegnata ai due ragazzi l'etica, sostanzialmente di matrice piccolo-borghese, dell'accontentarsi ("meglio poveri che disonesti", afferma Rosario); del rispetto delle regole ("sono un bravo ragazzo, vengo da una famiglia sana"); del conservatorismo; dell'obbedienza alle regole sociali ("nella vita c'è una linea da seguire").

Il secondo elemento, il gruppo dei pari, ha un ruolo secondario. Nell'ambiente dei ragazzi del quartiere, presumibilmente, circolano idee diverse: la politica è quasi del tutto assente, mentre sono in tanti che preferiscono spacciare piuttosto che rinunciare ai soldi.

Perché l'etica trasmessa dalla famiglia è vincente rispetto a quella del quartiere ? Le ragioni sono da rintracciare nell'analisi delle funzioni familiari, fatta nel paragrafo precedente.

La famiglia è vincente perché funzionale, garantisce la sopravvivenza economica e - cosa non trascurabile - momenti di affetto, intimità e sicurezza preziosi in un ambiente violento e competitivo fino al darwinismo.

"Gli episodi belli erano le feste, Capodanno, in modo particolare, Natale, lo stare tutti insieme perché essendo una grossa famiglia ci si riuniva nelle occasioni di festa: a Pasqua, Natale, Natale in particolare.

Infatti per me il Natale aveva un significato importantissimo. E spesso sto sotto l'albero di Natale, accanto al presepe, a pensare ai momenti che ho trascorso in famiglia" [Mario, Interv3].

La scuola di Rosario è una istituzione assente, distante, che premia il comportamento conformista e inventa crudeli punizioni per i devianti.

La trasmissione del sapere scolastico è fallimentare per una serie di motivi:

- l'insegnamento è burocratico, non coinvolgente, per nulla interessante (nel senso etimologico: interesse = inter esse, "essere tra");

- l'attività dello studio è vista tra i ragazzi come comportamento conformista, svolta per ragioni del tutto diverse dalla voglia di sapere o apprendere o ragionare autonomamente.

Nei quartieri popolari è forte l'idea che il sapere sia sostanzialmente empirico, derivato dalla vita quotidiana o dalle esperienze trasmesse dalle generazioni precedenti. Andare a scuola serve soprattutto a prendere 'il pezzo di carta' che dovrebbe poi garantire l'accesso al lavoro.

Lo scontro è tra insegnanti che invitano a 'mettersi la testa a posto' e ragazzi con 'la testa al gioco'. Senza che nessuno si chieda il senso di ciò che sta facendo.

In questo quadro sono comprensibili due degli episodi raccontati:

- il "deviante" che da solo, col suo comportamento, convince un'intera classe a non studiare, per poi essere inglobato nel modello conformista ("l'anno dopo anche lui si è messo la testa a posto").

- la scelta di non continuare gli studi e l'inevitabile pentimento.

E' un copione classico delle periferie: il ragazzo studia a stento, se è ripetente viene visto dai compagni come 'eroe' positivo, invece chi studia è giudicato negativamente (sono soprattutto le ragazze a studiare), il rapporto coi professori è di scontro e sfida; si ha la testa al gioco, allo scherzo.

Non si vede l'ora che la scuola finisca. Alla fine è rimasto poco o niente, l'indispensabile per superare le interrogazioni e le prove scritte. Le idee sono sempre confuse ("l'Italia ha una storia, una cultura, con le invasioni dei popoli...", dice Rosario per sostenere le sue idee nazionaliste).

Il ragazzo della periferia si sente furbo, ha ottenuto la licenza media col minimo sforzo, ora al massimo frequenta un corso professionale "per imparare un mestiere" (ma lui non lo sa che l'epoca dell'artigiano ha lasciato da tempo il posto a quella dell'operaio-massa intercambiabile).

Poi, puntuale, arriva il momento del pentimento. Pensava di iniziare subito a lavorare, tanti sognano di "fare il meccanico", intascare i primi soldi e spenderli come gli pare.

Poi scoprono che per fare il netturbino ci vuole il diploma. Che per ottenere un posto ci vuole la 'spinta'. Che il lavoro che si può avere è in nero, precario: sfruttamento puro. La delusione, fortissima, porta tanti a scegliere il rischio e il guadagno facile: spaccio, estorsioni, rapine.

Perché si ripete questo copione ? E' comprensibile che un ragazzino di 12-14 anni non si renda conto che al proseguimento degli studi è subordinata non tanto la mobilità sociale, quanto la sopravvivenza stessa.

Occorrerebbe che tale consapevolezza sia patrimonio degli adulti, che troppo spesso vivono nella mitologia dell'"imparare un mestiere", lasciare la scuola "dove non c'insegnano niente", etc.

Tornando alla socializzazione, anche dagli insegnamenti proviene in genere la trasmissione di un modello culturale piccolo-borghese e conformista, simile all'"etica dell'onestà" descritta prima.

Generalmente, in uno scontro culturale con l'etica del quartiere, il modello scolastico è perdente. La scuola di periferia, inoltre, è un ambiente estremamente violento, con un clima da caserma (v. l'episodio del ragazzo buttato nel lavandino, in Interv2), sia per il comportamento dei ragazzi che per le reazioni dei docenti: interrogatori e punizioni, che esasperano il clima, pongono i due elementi in una condizione di scontro frontale e pregiudicano le possibilità di comunicazione.



Se la televisione aveva un ruolo marginale nella formazione dei ragazzi delle precedenti generazioni, ed al contrario spesso ne avevano uno importante i libri ed i giornali, per i ragazzi di oggi è esattamente il contrario.

Rosario non legge libri, per ciò che riguarda i giornali si limita a sfogliare quelli che gli capitano in famiglia, cioè la "Gazzetta del Sud".

Si è già sottolineato il ruolo di agente di socializzazione di questo quotidiano, che per le sue caratteristiche ha un pubblico transclassista ed arriva anche dove la parola scritta fa fatica a giungere, cioè le periferie.

Ed inoltre il modello antropologico che traspare dalle pagine della Gazzetta non è molto lontano da quello dominante nei quartieri popolari: un certo maschilismo, la nostalgia del ventennio, la diffidenza verso i 'pentiti', il sicilianismo...

Rosario dice di stare 5 ore al giorno davanti alla televisione, la più potente educatrice dei nostri tempi. A differenza dell'educatore scolastico, viene ascoltata volontariamente, non giudica né interroga, si preoccupa di essere attraente e vivace.

La realtà virtuale che emerge dal televisore è talmente potente da sconfiggere elementi culturali sedimentati da generazioni. Dagli schermi tv prende corpo la società dello spettacolo, fatta di personaggi strani, discutibili, distanti ma ricchi e affermati, popolari e positivi.

Se ha la possibilità di far parte di questa società di privilegiati, il padre di Rosario gli concede di portare l'orecchino e vestirsi 'stile sinistra'. La realtà televisiva come termine di paragone ("se lo fai per spettacolo va bene, altrimenti a chi lo fai, solo per imitare ?") e di giudizio, che sconfigge persino uno dei tre principi fondamentali del fascismo, la disciplina.

Inoltre, la tv funziona da fabbrica dei sogni per tanti giovani disoccupati (chi vuole fare l'imitatore, chi il cantante) che proiettano i loro sogni in una dimensione lontana ma non impossibile: derivano dallo schermo tv le uniche possibilità - per via legale - di mobilità sociale e realizzazione personale, di successo insomma.

Rispetto alla mentalità dominante nelle periferie meridionali, Rosario presenta una importante specificità: vuole fare il poliziotto, non solo per lavorare ma anche per adesione ad una figura che nel quartiere non è granché apprezzata ("'u sbirru"). Ciò è comprensibile, visto che ci troviamo in una zona che si basa sull'economia illegale, dove si ha sempre qualcosa da temere dalla "giustizia". Generalmente, anche chi vive nella legalità sviluppa un forte senso di rifiuto della legge e dello Stato.

"La posso vedere bene io [la polizia], gli altri non la vedono bene, non la vedono bene perché c'è sfiducia nelle istituzioni e di conseguenza: un ramo delle istituzioni è la polizia, per cui..." [Mario, Interv3].

Giustamente, Rosario osserva che lo Stato è "come quello che ti chiede il pizzo" e poi non ti dà niente in cambio. Lo Stato sociale qui non è mai esistito, la repressione militare è stata la risposta più frequente al disagio (v. di recente la dislocazione dell'esercito nelle regioni meridionali).

Ma anche dall'altra parte, le colpe sono numerose: si sono preferite le briciole, la sopravvivenza, il rapporto di scambio col disprezzato politico.

Ma c'è stato anche il fascismo. Ed ancora, nell'immaginario di alcuni settori della società meridionale, si possono trovare le tracce di rimpianto per un regime che

- assicurava la tranquillità (la famosa "porta che si poteva lasciare aperta");

- garantiva il lavoro per tutti, o almeno si impegnava a garantirlo;

- si preoccupava prima per gli italiani, al punto da conquistare nazioni straniere ("i popoli meno civilizzati") pur di venire incontro alle esigenze dei disoccupati.

Di fronte a tutto questo, la mancanza di libertà e la violenza sfrenata (le torture di Mori, interi paesi assediati, donne e bambini presi in ostaggio) apparvero come dettagli, spesso non vennero neanche percepiti negativamente da chi la violenza l'aveva conosciuta fin da bambino, e la libertà non sapeva cosa fosse.

Questa serie di valori sono stati trasmessi a Rosario dalla famiglia, dal padre in particolare: sogna un regime che dia lavoro, identità (essere italiani), ordine (tranquillità).

Nel mondo popolare siciliano si trovano essenzialmente due tipologie: la prima è questa appena descritta (legge ordine Italia conformismo); la seconda è molto diversa, si basa sul culto dell'onore e del rispetto, sulla furbizia (violazione delle leggi), sull'omertà (non si parla agli sbirri), sull'uso privato della violenza e sulla ricerca dell'arricchimento facile.

So bene che si tratta di una suddivisione grezza: ma ritengo che ciò che attualmente differenzi le due categorie sia essenzialmente un elemento: gli appartenenti alla prima tipologia hanno (o aspirano ad avere) il "posto" dallo Stato. I membri della seconda categoria vi hanno rinunciato.

Il secondo motivo che spinge Rosario a giudicare positivamente la figura del poliziotto ci riporta agli altri due agenti di socializzazione: scuola e televisione.

La cosiddetta "educazione alla legalità" sembra essere diventata un valore indiscutibile, specie se rivolta ai ragazzi definiti - con un certo razzismo - "a rischio". La scuola è appunto un mezzo di trasmissione di questi valori, che poi sono quelli riconducibili all'etica dell'onestà.

Il ruolo della tv potrebbe essere quello decisivo: Rosario dice di amare molto i polizieschi, definisce il poliziotto come quello che lotta contro il male, sconfigge la droga; e poi gira in macchina, si veste anche in borghese.

Esattamente come nei telefilm polizieschi, dove l'eroe si comporta generalmente come il suo antagonista (spara, uccide, aggredisce) ma è, a priori, l'eroe positivo: vive fantastiche avventure, vince sempre, spesso è arricchito degli elementi tipici dell'eroe (bellezza, intelligenza, forza). L'identificazione è completa se si aggiunge che la finzione televisiva si basa sullo schema elementare fondamentale per la nostra cultura: da una parte il buono, dall'altra il cattivo.

La rottura con la cultura del quartiere si compone parzialmente con la descrizione (o l'idealizzazione ?) del poliziotto che - se c'è un caso umano - ti aiuta.

L'idea dell'impersonalità della legge, del ruolo esecutivo, appunto l'idea del "braccio della legge" appare insopportabile alla cultura delle periferie meridionali. E come, arresta un padre di famiglia ? E che fa, "attacca" l'amico suo, dopo che avevano mangiato e bevuto insieme ?

Un ulteriore elemento di contrasto deriva dall'ideologia consumista. In breve, la situazione delle periferie è più o meno questa.

fini
oggetti di consumo
desiderio indotto da mass media, pubblicità

mezzi
precari, scarsi
disoccupazione, lavoro nero, crisi economica


Non occorre spendere troppe parole sul primo processo: i soli spot televisivi sono più che eloquenti; un'intera categoria, quella dei pubblicitari, passa la vita ad inventare nuovi metodi per la persuasione ad un consumismo sempre più sfrenato.

Sono i consumi stessi a dare un'identità: nel quartiere, oltre che per la tradizionale adesione ai modelli dominanti, vieni riconosciuto se possiedi:

"Tu hai una cosa e io non ce l'ho e tu mi prendi in giro perché io non ce l'ho. [...] Magari ti prendevano in giro perché non avevi il motorino" [Rosario, Interv2].

"Quello che aveva il jeans firmato, la cartella dell'Invicta, qua e là, io proveniente da una famiglia non benestante, mi sentivo... Magari era un po' una colpa mia che mi sentivo messo da parte, però mi rendevo conto: alle volte, la battutina, le cose... Ecco, si creavano delle fazioni.

Comunque io ho trovato altri ragazzi quasi nella mia stessa situazione, un rapporto bellissimo che ancora adesso (bellissimo non tanto effettivamente), comunque "andabile", ogni tanto ci sentiamo...

[Gli altri ragazzi, invece,] venivano dal centro, dalle zone belle delle città di Messina" [Mario, Interv3].

E' il possesso delle cose a costruire un'identità, oppure a determinare crisi, mancanza di autostima, auto/colpevolizzazione.

Questo accade quando mancano i mezzi adeguati per raggiungere lo scopo. Perché le merci costano; e chi non possiede denaro non può raggiungerle, quindi non ottiene il riconoscimento sociale dovuto a chi ha.

"Se non lavoro non mi sposo, chiaramente", dice Rosario, come fosse la cosa più ovvia del mondo.

La considerazione è intrisa di rassegnazione, descrive come naturale la subordinazione del matrimonio al denaro: è del tutto diversa, per esempio, dalla denuncia del protagonista di un romanzo di Orwell, il quale - parafrasando sarcasticamente il Vangelo - scopre che nella società in cui vive tutto (amore compreso) dipende dal denaro:

"Or queste tre cose durano al presente:

fede, speranza e denaro;

ma la maggiore di esse è il denaro"

[Orwell 1966, 8]

Il consumismo non è certo un problema messinese, si tratta di un grande fenomeno mondiale che coinvolge tutti i Sud del mondo e le culture 'perdenti', prima fra tutti quella Rom.

Se, rimanendo nell'ambito della legalità, non è possibile raggiungere l'oggetto del desiderio, il passo successivo è quello di uscirne. Spacci una dose e ti ritrovi in tasca i soldi che non hai mai visto tutti insieme.

Chi si impegna nell'"educazione alla legalità", così come chi si occupa dei "centri sociali nei quartieri a rischio" non può ignorare questa fondamentale contraddizione. Altrimenti il lavoro nelle periferie si traduce in una "socializzazione alla rinuncia" dei beni di consumo, in diretta concorrenza col mezzo televisivo che lancia il messaggio opposto...

Il confronto tra Rosario e il consumismo sembra un romanzo: da bambino soffre del confronto con i suoi amici che si possono permettere qualcosa in più; appena più grande, c'è chi lo prende in giro perché non ha il motorino; chiede al padre di acquistargli i jeans di marca: il padre che per i figli "si toglie il pane di bocca", come un eroe di Verga.

Poi, quando prova l'esperienza del lavoro, capisce la difficoltà di procurarsi il denaro, vede gli oggetti di consumo in maniera più distaccata: il desiderio irrazionale deve confrontarsi con la ragione calcolatrice: "con quello che costa un jeans firmato se ne possono comprare cinque".

Scrive persino una canzone che esemplifica la voglia di vendetta nei confronti di chi ha: "parla di un ragazzo che si veste troppo alla moda, si dà troppe arie: e alla fine gli rompono il culo".

L'etica dell'onestà fa da barriera all'ideologia consumista: "meglio poveri che disonesti" !

Rosario ha aderito ad un'altra etica, alternativa a quella dominante. Molti altri, nel suo quartiere, pensano invece che è meglio essere disonesti che poveri.

L'ideologia consumista non è però definitivamente sconfitta, inevitabilmente affiora (Rosario e Mario passano molte ore al giorno di fronte al televisore...) e spesso si scontra con altri valori, sedimentati da generazioni:

"Mia moglie dovrà lavorare ? Mai ! Certo, se abbiamo bisogno..." [Rosario, Interv2].

"[Voglio] avere il classico focolare domestico, la ragazza casalinga, anche se oggi come oggi mi rendo conto che con un solo stipendio non si riesce a tirare..." [Mario, Interv3].





E. La gestione dell'esistenza

Tutto è stato scalfito, è arrivato lo Stato unitario, il mercato, i consumi, le autostrade, la modernità e le sue contraddizioni. Tutto è stato scalfito, ma lui - vecchio di secoli - continua a resistere. E' il fatalismo siciliano:

"Bisogna accettare la vita per come viene" [Rosario, Interv2].

"Secondo me nella vita c'è una linea da seguire, il maschio e la femmina, si accoppiano e fanno figli, si lavora, maschio e femmina, i figli si sposano, sempre così"[ibidem].

"Il mio carattere [è quello di chi] aspira ad una famiglia, avere il classico focolare domestico, la ragazza casalinga, ..." [Mario, Interv3].

Il fatalismo si accoppia col conservatorismo, le vite di Mario Rosario sono già tracciate nelle loro menti, il progetto di vita è già deciso a priori: un caso estremo di etero-strutturazione.

Per molti ragazzi, anche siciliani, che hanno vissuto tra il '68 e il '77, la vita non si accettava per come veniva. Ma quel modello è stato sconfitto: e il fatalismo siciliano, vecchio di secoli, torna a trionfare.

La società contadina e popolare era essenzialmente irrazionalista, magica e religiosa. Nello scontro con la cultura della modernità è stata sconfitta: la razionalità, vincendo, ha ridicolizzato la magia; la scienza ha battuto l'irrazionale. Ma la vittoria, è ovvio, non è mai totale: le permanenze culturali stanno appunto ad indicare che la vittoria non è stata completa.

L'interesse di Rosario per la magia, l'occulto, l'irrazionale può appunto essere interpretato come una permanenza culturale della società contadina.

Ancora una permanenza culturale è rintracciabile nella ideologia maschilista: il rifiuto dell'emancipazione femminile ("sono assolutamente contrario alla donna che lavori"; "la donna deve badare alla famiglia") e il disprezzo per l'omosessualità.

Naturalmente, rispetto al tradizionale virilismo siciliano, quello di Rosario è temperato da tre decenni di cultura della parità e dei diritti: i toni che riguardano gli omosessuali sono abbastanza sfumati (e questa è già una novità assoluta); il lavoro femminile è accettato, oltre che in caso di necessità, nell'ipotesi in cui non sia degradante.

Quando Rosario si riferisce alla distinzione tra destra e sinistra, afferma che quest'ultima "è più per la democrazia". Occorre capire che l'idea di democrazia diffusa nei quartieri popolari è ben diversa da quella che si intende altrove: democrazia indica il regime in cui essi hanno vissuto dopo la caduta del fascismo, si riferisce più alla Democrazia cristiana (intesa come partito-Stato) che alla sovranità (alla partecipazione) popolare, del resto ampiamente sconosciute e mai sperimentate.



Gli abitanti delle periferie si trovano a convivere con un mondo 'imploso', ad affrontare una gestione della crisi permanente.

La società di Rosario è un mondo in piena crisi ("Come immagino il futuro ? Fine del mondo"). La descrizione apocalittica ("guerre, violenze, stupri, tutto quello che sta succedendo") è tipica del punto di vista di chi è stato sconfitto. L'allegria di Rosario ("sono un ragazzo allegro, il jolly del gruppo") è una felicità televisiva, costruita, dietro cui si nasconde un pessimismo cosmico.

Mario sembra maggiormente reattivo, ma è ampiamente consapevole della situazione in cui vive:

"[Come immagino il futuro ?] Lo immagino molto incerto perché non vedo nulla di stabile, nulla di stabile nelle istituzioni e nella vita sociale che si conduce. [...]

Chi sono ? Sono una pedina di questa scacchiera. [Ma] non mi sento manovrato, mi sento una persona libera..." [Interv3].



Elementi di gestione della crisi

psicologici
1. identità: nazionalismo, fascismo, sicilianismo


2. etero/colpevolizzazione: stato, politici


3. autostima: illusione dell'indipendenza

strutturali
1. cura, emergenze e riproduzione: famiglia


2. lavoro: rete basata sullo scambio


3. economia: riproduzione sociale allargata


4. sopravvivenza: gestione della violenza




La società delle periferie proviene dal mondo contadino, che aveva un'identità e una cultura forte, sconfitta dalla modernità. Non possiede i mezzi per raggiungere i fini che il nuovo mondo richiede (lavorare per consumare). Si trova in una situazione di crisi permanente. A differenza di altre realtà, le periferie messinesi non hanno cercato di uscire dalla crisi, bensì si sono ridotti a gestirla.

Dal punto di vista psicologico, le ideologie nazionalista, fascista e/o sicilianista danno un'identità relativamente forte, per i motivi già espressi.

Altro strumento di identità è l'etero/colpevolizzazione dello Stato e della politica: uno strumento comodo, efficace, tranquillizzante: sfida il principio di non-contraddizione ("i vigili sono al bar a non fare niente, ma anche in strada a creare più casino": qualunque cosa faccia, lo Stato è sempre in colpa).

Se poi questo non basta ad assicurare l'autostima, c'è sempre l'illusione (in termini freudiani: negazione, nel senso di autopoiesi della realtà): Rosario, per esempio, dice di essere indipendente, di amare l'indipendenza, anche se poi la realtà e diversa.

Infatti, la famiglia - come abbiamo visto - è un indispensabile strumento di sopravvivenza, che assolve a compiti fondamentali. Lo stesso accesso al lavoro avviene attraverso reti parentali e di amicizia.

Le stessi reti hanno un ruolo politico-economico, attraverso lo scambio tra voto e flusso di denaro pubblico. Senza questo sistema di protezione, oggi fortemente in discussione, la situazione di Camaro o del Cep sarebbe molto simile a quella di una favelas brasiliana, anche se i ragazzi non vedono elementi di similitudine tra Meridione d'Italia e Sud del mondo.

Le risorse economiche da ridistribuire - come abbiamo già detto - provengono prevalentemente dai flussi di denaro pubblico e spesso dai proventi delle attività criminali e illegali.

Questo modello è stato definito riproduttivo. E la finalità riproduttiva di questa società, del resto, è lucidamente descritta da Rosario: "maschio e femmina si sposano, fanno figli, sempre così...". Niente altro.





La rete dei rapporti di scambio

Il sistema di rapporti evidenziati nel modello disegnato nel capitolo "Sociologia del sistema criminale" può essere rinvenuto anche nell'area messinese, come interazione tra gli elementi appena descritti (aree della borghesia mafiosa, dei boss e dei clan, dell'esercito criminale di riserva).

In ognuno di questi settori esistono delle figure sociali, ciascuna delle quali svolge una precisa funzione all'interno del sistema:

a/ politici

b/ imprenditori

c/ mafiosi

d/ magistrati;

e/ forze dell'ordine;

f/ clero;

g/ professionisti.

In genere, ogni figura inserita in un sistema mafioso svolge attività contrarie a quelle che istituzionalmente dovrebbe eseguire. In ogni caso, si comporta in maniera differente rispetto alle aspettative comuni.

Il rapporto tipico tra i singoli soggetti è quello dello scambio diadico.





Politica - Mafia

Uno dei luoghi comuni più radicati vuole che la specificità della mafia messinese sia quello di non avere legami con la politica. In realtà questi legami non sono stati intaccati e denunciati, o lo sono stati in minima parte: e questo non dimostra la loro inesistenza ma al contrario la loro solidità.

In una città dove le classi dirigenti sono ferreamente coese non è tollerabile che siano messi sotto accusa dei membri dell'élite al potere. Anche quando questi si attivano come referenti della criminalità organizzata, ne godono i benefici o partecipano in prima persona alle attività illegali.

La storia messinese dei rapporti mafia-politica in realtà inizia già da tempo: possiamo farla risalire almeno al 1984, alle prime inchieste giudiziarie sulle estorsioni. Allora si scoprì che in una organizzazione di estortori c'era Italo Giacoppo, capogruppo al consiglio comunale per il Psdi [Sicil, giugno 1984, 25].

E la vicenda prosegue con la sezione messinese della "famiglia politica più inquinata della Sicilia".





Gli andreottiani

Il sostegno elettorale agli andreottiani messinesi si concretizza mediante una serie di complessi rapporti che coinvolgono la criminalità organizzata peloritana, barcellonese e palermitana.

premessa
andreottiani palermitani
Lima

avvio
corleonesi
Aglieri - Greco

mediazione
barcellonesi (gr. storico)
Salvatore Valenti

esecuzione
clan Giostra
Marchese - Costa

beneficiari
andreottiani messinesi
Ziino - Merlino




La premessa dell'operazione è da rintracciare nei rapporti tra la corrente andreottiana di Palermo ed il gruppo dei corleonesi. Un rapporto che si traduceva nello scambio elettorale. Lo scambio, già collaudato nel palermitano, andava il più possibile esteso in altre zone della Sicilia, a vantaggio dei candidati dell'area andreottiana.

Per realizzare tale operazione, per estendere cioè il sistema della raccolta di voti mafiosa all'area messinese, i corleonesi avevano a disposizione referenti collaudati: gli esponenti della mafia barcellonese, già da tempo in contatto con i principali esponenti di Cosa Nostra, con cui realizzavano varie attività criminali (v. par. 4.1).

Così, Pietro Aglieri e Carlo Greco erano già da tempo in stretti rapporti con il bancario barcellonese Salvatore Valenti, esponente del nucleo storico della mafia di Barcellona, poi assassinato nel febbraio dell'86 nella sua villetta a Torre Faro da sicari travisati con maschere di carnevale.

Valenti incontra quindi Mario Marchese, esponente del clan di Giostra. L'obiettivo è il sostegno elettorale, in occasione delle amministrative messinesi, a favore di Alfio Ziino (ex assessore comunale alla viabilità) e di Pino Merlino (ex deputato regionale), cioè gli esponenti di spicco della corrente andreottiana in riva allo Stretto:

"Devo precisare che sin dal primo incontro il Valenti mi disse che la richiesta di appoggiare Ziino proveniva dalla 'cupola' di Palermo senza specificare alcun nome facendomi però capire che egli era collegato con grossi malavitosi di Palermo che avrebbero, in caso di esito favorevole per lo Ziino, accontentato sia lui che me. In definitiva, il Valenti teneva moltissimo a queste persone di Palermo stante che erano collegate all'on. Merlino. Seppi solo successivamente che una delle persone a cui faceva riferimento il Valenti era tale Pietro Aglieri, 'u signurinu' e ciò perché fu lo stesso Valenti a presentarmelo quando questi, per motivi di salute della madre, venne nella città di Messina, prima che si svolgessero le elezioni amministrative.

Infatti il Valenti mi disse che la persona che lo aveva inviato da me era proprio l'Aglieri, persona che a suo dire all'epoca occupava un posto di assoluta preminenza in 'Cosa Nostra' e più precisamente nella zona di via dei Mille a Palermo" [MN 1994, 14].

"L'ucciso [Salvatore Valenti, esponente di Cosa Nostra nel messinese] era una mia vecchia conoscenza e vicino agli uomini politici Giuseppe Merlino, Alfio Ziino e Santo Pagano, nonché ai boss di Palermo Pietro Aglieri e Giuseppe La Mattina, di Bagheria; Antonino Gargano, Nando Greco; del boss di Caltanissetta Giuseppe Madonia, di Mistretta Pietro e Sebastiano Rampulla e di Catania Gino Ilardo" [Dal verbale di dichiarazioni spontanee rese da Mario Marchese il 21 maggio 1993; MN 1994, 13].

L'input per il sostegno elettorale agli andreottiani dello Stretto fu lanciato anche in maniera diretta. In un'audizione del processo Andreotti, il boss di Giostra Gaetano Costa, oggi collaboratore di giustizia, ha raccontato di essere stato avvicinato nel carcere di Novara direttamente da Leoluca Bagarella:

"Egli mi invitò, ad attivarmi al fine di indirizzare in favore di esponenti della corrente andreottiana il consenso elettorale nel messinese. Io feci sapere a Mimmo Cavò di adoperarsi al fine di sostenere elettoralmente le persone, che a Messina, erano vicine all'on. Andreotti".





D'Aquino

I procedimenti giudiziari riguardanti la mafia messinese sfiorano appena il problema dei rapporti con la politica: nella sentenza contro il clan di Mangialupi, su 412 pagine, si possono leggere queste poche righe su tale tema. Si tratta di affermazioni di collaboranti, ritenute insufficienti ma non approfondite:

"Quanto ai rapporti col mondo della politica, Fresco ha affermato che, in occasione di una consultazione elettorale del 1992, un personaggio non indicato aveva versato al gruppo la somma di 80 milioni in cambio di una campagna elettorale in suo favore. L'asserto, in sé assolutamente generico e, per come espresso, non verificabile, trova una parziale conferma da parte di Surace il quale, riferendosi ad una conoscenza dei fatti allo stesso Fresco e al figlio Cono, parla di un contributo di circa 80 milioni proveniente dal senatore Ricevuto e di un ulteriore contributo di 10 milioni, versato al gruppo Mangialupi come a tutti gli altri gruppi operanti sul territorio cittadino, da parte dell'on. D'Aquino" [ML 1996, 102]

Il principale accusatore di d'Aquino rimane Iano Ferrara, boss del Cep. La vicenda presenta tuttavia risvolti non chiari, legati alla gestione della collaborazione di Ferrara.

Si intravedono dietro questa vicenda rivalità e rancori tra organi inquirenti e di polizia, reticenze e presumibili protezioni riservate ai potenti, infine una sostanziale incapacità della magistratura messinese di affrontare in maniera chiara e lineare il nodo dei rapporti mafia-politica.

Dopo alcuni mesi di gestione da parte di Andrea Manganaro e degli altri poliziotti del Commissariato Duomo (gli stessi che ne avevano interrotto la latitanza), Ferrara viene dichiarato inaffidabile dalla procura di Messina; ritiratagli la protezione, viene inviato all'Asinara.

Il 23 giugno del 1994, il procuratore Zumbo comunica alla stampa la revoca dei benefici al pentito. "Quando abbiamo ritenuto che alla menzogna Sebastiano Ferrara ha aggiunto la frode (in ciò collaborato anche dalla moglie) è stata ritenuta la sua inaffidabilità ed è stato trasferito in una casa circondariale che il ministero ci ha indicato".

I magistrati hanno lasciato intendere di sospettare che il boss del Cep continuasse a mantenere rapporti con alcuni importanti personaggi malavitosi, grazie alla collaborazione della moglie. Qualche giorno prima Ferrara aveva minacciato di darsi fuoco (il fatto era stato tuttavia negato dai magistrati).

Un articolo di cronaca ricostruisce così quei giorni:

"Ma, il 25 maggio accade un ulteriore, strano episodio. Iano Ferrara ha una sorta di crisi isterica, rompe alcuni vetri ed urla come un forsennato. Passano pochi giorni e chiede di incontrare il procuratore nazionale antimafia, Bruno Siclari.

Poi, il 9 giugno si cosparge di alcool, tentando di darsi fuoco. Perché? Apparentemente protesta per il trattamento che gli viene riservato, ma in fondo si capisce che non vuole essere gestito dalla Squadra Mobile. Un altro "pentito" eccellente, Luigi Sparacio, nei mesi precedenti, aveva espresso timori nei confronti di quello stesso ufficio.

"Se mi prendono mi ammazzano", avrebbe dichiarato. [...]

Cosa succede? Ferrara non si da per vinto ed annuncia agli inquirenti calabresi di essere in possesso di tre cassette, nelle quali sono registrati colloqui con giudici messinesi e con uomini politici. Si parla dell'ex sottosegretario agli Interni, Saverio D'Aquino, che avrebbe ringraziato il boss per i voti ottenuti al Cep. Il dott. Manganaro, che ha già interrogato Ferrara, potrebbe sapere qualcosa a riguardo.

Ed, a questo punto, Andrea Manganaro diventa indagato per la Procura di Messina e teste (di grande importanza) per quella di Reggio Calabria che indaga sui giudici peloritani. [...]

Un intricato intreccio, complicato dal fatto che a Messina sono finiti gli atti inerenti le rivelazioni del notaio reggino Pietro Marrapodi. I magistrati delle due sponde, dunque, si scrutano a vicenda." [Sic, 3 luglio 94, 19]

Intanto, dal carcere parte una fitta rete di telefonate con la moglie Letteria Palmieri. In quella del 26 giugno Ferrara cita apertamente Manganaro come causa di tutti i suoi guai.

Poi interviene il giudice Romano che dice alla moglie: "Senta signora, suo marito ha avuto degli imput, ha avuto dei suggerimenti, non in linea con quello che doveva dire e sono venute fuori alcune cose, ora suo marito, tranquillamente le ha dette, le ha riferite, noi le stiamo prendendo in considerazione e faremo di tutto al più presto per riuscire a farlo tornare...". "Quelle persone, gli hanno detto signora, delle cose che l'hanno fatto spaventare". "Gli hanno detto delle cose, suo marito le ha fatto un nome... questo ci ha rovinati...quella persona lì" ["Centonove" 17 novembre 95].

Manganaro e i sovraintendenti Stefano Genovese, Mario Patania, Stefania Minto e Sebastiano De Salvo nel giugno '94 vengono arrestati e sospesi con l'accusa di aver calunniato un gruppo di magistrati messinesi. Il ministero degli Interni invece li reintegra in servizio e sollecita un intervento della procura nazionale.

La vicenda prosegue con uno scontro sempre più duro tra Squadra Mobile, Commissariato Duomo e magistrati della DDA.

Un anno più tardi, nel giugno del '95, Ferrara è ricoverato in ospedale per 'avvelenamento', causa, pare, i tatuaggi scolpiti sulle braccia. "Iano Ferrara nelle ultime settimane è apparso profondamente cambiato. Dimagrito di oltre 10 chili, capelli corti, gli stessi amici hanno stentato a riconoscerlo" [Gaz, 17 giugno 95].

La presunta gestione irregolare di Iano Ferrara comporta l'avvio di un procedimento giudiziario da parte della procura di Reggio Calabria: sono iscritti nell'elenco degli indagati 4 magistrati: Pietro Vaccara, Franco Langher, Gianclaudio Mango e Vincenzo Romano.

L'inchiesta era stata avviata in seguito all'esposto di Andrea Manganaro, ex vicedirigente del commissariato Duomo. A lui Ferrara dopo il suo arresto avrebbe raccontato dei legami della sua cosca con D'Aquino e la 'benevolenza' di alcuni magistrati. I 4 giudici invece non avrebbero creduto alle deposizioni. Nell'esposto presentato dall'avvocato Taormina, difensore di Manganaro, si afferma addirittura che il primo interrogatorio di Ferrara non sarebbe stato verbalizzato e che fu rifiutata l'audiocassetta [Gaz 15 novembre 95].

In una sua deposizione al giudice Vaccara, Ferrara afferma: "La cassetta registrata relativa al colloquio fra Zoccali (l'emissario che Ferrara avrebbe mandato dal parlamentare 'per ricordargli i suoi impegni' ndr) e l'on. Saverio D'Aquino è stata da me consegnata per la trascrizione al maresciallo Genovese alla presenza dei magistrati della Dda. Dopo che è stata curata la trascrizione la cassetta mi è stata restituita dicendo che la vicenda sarebbe stata verbalizzata successivamente" [Gaz 16 novembre 95].

L'ipotesi di corruzione in atti giudiziari è invece contestata ai giudici Domenico Cucchiara e Giuseppe Recupero.

Al centro dell'inchiesta la cassetta audio in possesso di Ferrara, esibita a tanti magistrati, nessuno dei quali avrebbe svolto le necessarie indagini. Oggetto una conversazione tra il boss e D'Aquino alla vigilia delle elezioni politiche del '92. In cambio di un sostegno elettorale il sottosegretario liberale si sarebbe impegnato a intervenire a favore di Ferrara sui magistrati.

Sentito al processo, Sparacio aggiunge che "Iano Ferrara aveva delle cassette in cui c'era la prova dei voti che aveva 'passato' all'onorevole D'Aquino. Una di quelle cassette fu distrutta all'Ospedale Papardo alla presenza di Montagnese. Domenico Di Dio me lo ha detto" ["l'isola" 12 gennaio 96]. Ferrara negherà che alla distruzione della cassetta fosse presente Montagnese.



Il 6 gennaio 1996, tuttavia, il nome dell'ex sottosegretario, emerge ugualmente. La DDA messinese chiede il rinvio a giudizio per voto di scambio col boss del Cep. Secondo l'accusa, d'Aquino promise, alla vigilia delle elezioni del '92, il condono per un residuo di pena che Ferrara doveva scontare a Reggio.

L'incontro avvenne a Palazzo Zanca, sede del municipio, nella stanza di Salvatore Bonaffini, assessore Pli all'acquedotto. D'Aquino stesso ha confermato la circostanza dell'incontro, negando però che si sia parlato di elezioni. Secondo la DDA, invece, fu quella l'occasione per stabilire il patto: il Pli passò da 18mila voti (amministrative '91) a 22mila (politiche '92); il candidato liberale al Cep ottenne 160 voti in più rispetto alle precedenti consultazioni [Gaz 7 gennaio 96]. Il salto fu dal 4 al 26 % [l'Unità 10 aprile 94].

Il 21 novembre del '97 arriva il rinvio a giudizio per il boss Iano Ferrara e Salvatore Bonaffini, ex assessore all'acquedotto per il Pli.

Secondo l'accusa, Ferrara avrebbe chiesto a d'Aquino aiuto per evitare di scontare i nove anni di carcere che gli erano stati inflitti, offrendo come contropartita i voti del Cep. Bonaffini sarebbe stato il tramite dell'accordo.



Alla fine del novembre 1995 il nome di d'Aquino era spuntato anche nel processo Alfano, con la dichiarazione del pentito Surace, secondo cui d'Aquino aveva interesse alla gambizzazione del corrispondente della "Sicilia", che avrebbe posseduto documenti compromettenti per l'ex sottosegretario.

Surace, infatti, nella deposizione del 28 novembre, ha detto in aula di aver saputo del progetto di gambizzazione attraverso il figlio, sollecitato nel '92 da un affiliato al suo gruppo (Salvatore Longo, v. par. 2.2.2), il quale a sua volta sarebbe stato contattato da Salvatore Geraci, massone della loggia "Camea" ed ex assessore liberale legato a d'Aquino.

Durante il processo al clan di Mangialupi, ancora Surace dichiara che il suo clan avrebbe ricevuto 90 milioni dal senatore Ricevuto (fratello dell'ex preside della facoltà di Matematica) e dall'onorevole d'Aquino, in cambio di consistenti pacchetti di voti.

Agli atti dell'operazione Olimpia, ci sono le dichiarazioni del collaboratore Lauro secondo cui d'Aquino era uno degli affiliati alle logge masso-ndranghetiste Bova-Logoteta di Reggio Calabria:

"[erano nelle logge] il professore Saverio D'Aquino, messinese, medico. [...] Paolo De Stefano mi disse che il prof. Motta e un altro medico messinese, e cioè il professore Saverio D'Aquino, erano 'uomini loro', cioè erano stabilmente utilizzati per ottenere favori in materia medico-legale. Il De Stefano aggiunse che il contatto con i professionisti messinesi era stato assicurato da Cosimo Zaccone [il preside massone titolare della cassetta di sicurezza contenente le liste]" [Dichiarazioni di Giacomo Lauro, 23-24 febbraio e 3 marzo 1995, OL 1995, vol. XXIV].



Le prime esperienze politiche di d'Aquino risalgono ai raduni dei giovani fascisti, poi la carriera coi camerati del Msi, la parentesi in Democrazia nazionale, il salto nel Pli. Prima il consiglio comunale, poi Montecitorio e dieci anni da sottosegretario (da Craxi II al governo Amato), di cui sei al Ministero dell'Interno.

Nel 1994 d'Aquino è ancora attivo in politica come segretario dell'"Unione di Centro" che si presenta alle comunali nell'ambito del "Polo" di centro-destra.

Nonostante i problemi di carattere giudiziario, d'Aquino ha conservato fino all'ultimo il suo posto nella facoltà di Medicina, la cattedra di ordinario: il primo punto di riferimento per la costruzione del suo potere.

Il 25 novembre del '95 muore, novantacinquenne, la signora Antonietta d'Aquino, madre di Saverio. Una pagina intera del quotidiano cittadino è ricoperta dai necrologi: da un lato i potenti della città (baroni universitari, magistrati, imprenditori, politici); dall'altro il personale degli istituti universitari in qualche modo legati a d'Aquino; infine personaggi come Giuseppe Capurro (v. par. 3.1.2 e 2.2.2).

E' evidente il significato simbolico del necrologio, pubblico segnale di partecipazione al dolore dell'amico, il cui lutto si vuole con-dividere. Una dimostrazione di amicizia e vicinanza, avvertita come imperativo morale. Un vincolo simbolico-antropologico di notevole significato nell'ambito delle ritualità legate al lutto ed alla morte.

Nel caso in esame sono centinaia le persone che hanno sentito il dovere di rendere omaggio al barone universitario, su un piano chiaramente asimmetrico, in una situazione che sfiora la deferenza.

Il 16 giugno '96 si è votato per le regionali siciliane. Saverio d'Aquino è defunto da qualche tempo. Rinasce la Dc, tornano gli ex potenti. Oppure i figli: Antonio d'Aquino stravince con migliaia di preferenze, nelle liste di Forza Italia, ad indicare l'ipotesi per cui il sistema di potere paterno è rimasto (almeno in parte) intatto e funzionante.





Madaudo

Per un certo periodo, il segretario dell'on. Madaudo è Nenè Blandi, fratello di Matteo Blandi, esponente del clan di Mistretta che era capeggiato da Giovanni Tamburello e Giuseppe Farinella, personaggio di grande rilievo in stretto contatto coi palermitani. Dopo l'omicidio del fratello, Nenè Blandi si recò da Farinella, il quale...

"... gli rispose di non chiedergli più nulla del fratello e di stare tranquillo sia per la sua incolumità che per il lavoro. Infatti, in seguito il Farinella gli fece prendere dei lavori utilizzando gli automezzi del defunto Matteo Blandi presso la ditta di Palermo che effettuava la costruzione di una centrale elettrica in S. Agata Militello, località Vallebruca, Preciso che Nenè Blandi in seguito diventerà il segretario dell'on. Madaudo" [Orlando Galati Giordano, verbale di interrogatorio del 11.5.1993, MN 1994, 461].

Dino Madaudo, parlamentare per il Psdi, è stato sottesegretario di Stato alla difesa e alle finanze.

E' stato accusato di voto di scambio col clan Marchese per le elezioni politiche del '92.





Imprenditoria - Mafia



Dalla legislazione vigente è possibile dedurre tre tipologie di imprese mafiose:

Imprese direttamente gestite avvalendosi della "forza d'intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva".
Imprese finanziate, in tutto o in parte, con i proventi del crimine;
Impresa esercitata con il ricorso ad "atti di concorrenza con violenza o minaccia".
[cfr. Santino La Fiura 1990, 30].







Sparacio, cosca imprenditrice



I. Imprese gestite in maniera diretta o indiretta

II. Imprese finanziate, in tutto o in parte, con i proventi del crimine

III. Imprese esercitate con violenza o minacce





I. Imprese gestite in maniera diretta o indiretta

L'acquisizione di imprese da parte del clan Sparacio avviene principalmente mediante l'usura. Al par. 3.1.2 (Usura) si descriva nei dettagli l'organizzazione diretta da Sparacio e dalla suocera Vincenza Settineri (smantellata dall'"operazione Pirañ a") finalizzata appunto all'acquisizione di attività e beni economici sottratti alle vittime.

Dalle attività usuraie, con connesse estorsioni e minacce (o comunque dalle attività criminali), il clan Sparacio ricava, per un periodo che giunge almeno fino alla metà degli anni '90, le seguenti attività (la lista, ricavata da atti giudiziari, è certamente incompleta):

Attività commerciali

Supermercato "Conca d'oro", acquisito da Vincenza Settineri grazie all'usura ai danni della famiglia La Fauci: della vicenda si occupa un autonomo procedimento penale [cfr. PN 1995, 28; 30].
Supermercato "La Stella" di Viale Annunziata (periferia nord), intestato a Vincenza Settineri e sequestrato nel novembre 1995.
Salumeria-macelleria "Due Stelle", intestata a Vincenza Settineri e sequestrato nel novembre 1995.
Negozio di abbigliamento "La Stellina", con sede sul viale San Martino, , intestato a Dorotea (Santina) Timpani, cognata di Sparacio, figlia di Vincenza Settineri e sorella del boss Santo Timpani ucciso nel carcere di Reggio da 109 coltellate inferte da Gaetano Costa [SP 1993, 15].
Negozio di abbigliamento "Touche" di via E.L.Pellegrino, intestato a Dorotea Timpani ed anch'esso amministrato di fatto da Sparacio [ibidem].
"Mediterranea Carni", distribuzione all'ingrosso, "notoriamente di proprietà di Sparacio Luigi" [PN 1995, 45].




Dichiarazioni IVA per le attività "Touche" e "La stellina" [SP 1993, 16]

anno
mod.
attiv.
ufficio
vol. affari
tot. acquisti

1987
11
4218
Messina
181.265.000
472.722.000

1988
11
4218
Messina
132.778.000
243.149.000

1989
11
4218
Messina
108.127.000
169.925.000

1990
11
4218
Messina
189.128.000
292.735.000

1991
11
4218
Messina
258.213.000
374.950.000








Imprese

Finanziaria 'Ifim Leasing International spa', con sede in Carpi (Modena) [SP2 1994, 12].
'Omnia Service snc di Angelo Artuso e C.' con sede a Latina [ibidem].
73 % delle azioni (intestate a Sparacio, valore dichiarato di 36,5 milioni) del bar "Paris" di Concettina Parisi e C. S.A.S. (risultante inattivo e con dichiarazione dei redditi ed IVA pari a "0") [SP 1993, 14].
23 % delle azioni (intestate a Giovanna Timpani, moglie di Sparacio) del bar "Paris", per un valore dichiarato di 11,5 milioni [ibidem].
"Ditta individuale Sparacio Luigi", sede in via Valle Isorno 3 - 20100 Milano. Oggetto: commercio al dettaglio di biancheria da casa, in attività dal 1991, non risulta iscritta alla Camera di Commercio [SP 1993, 8].
"Ditta individuale Timpani Dorotea", iscritta alla CCIAA di Messina, avente sede e domicilio fiscale in via E.L. Pellegrino 49 (con insegna "Touche") e punto vendita sul viale S. Martino 291 (con insegna "La Stellina"), inizio di attività nel 1982 [SP3 1994, 4].


Beni mobili

Automobili in uso a Sparacio: una Ferrari intestata ad una società in cui aveva una compartecipazione, una Lancia Delta Integrale, una Fiat 500, una Y10 [OG 1996, 174] ed una Mercedes 600 SL.
Auto sequestrate: Autovettura Lancia Thema Turbo Diesel intestata a Luigi Sparacio [SP 1993, 9]
Autovettura Renault intestata a Luigi Sparacio [ibidem].
Autovettura Volvo 440 Turbo, intestata a Dorotea Timpani [SP3 1994, 4].
Autovettura BMW 5021, intestata a Dorotea Timpani [ibidem].
Autovettura Volkswagen Golf intestata a Dorotea Timpani [ibidem].


Beni immobili

Appartamento in Rodia (Me), complesso Orchidea, composto da tra vani e accessori del valore dichiarato di Lire 19.200.000 [SP 1993, 7 sgg].
Appartamento in Rodia, facente parte di una palazzina bifamiliare, acquistato da Giovanna Timpani (moglie di Sparacio), valore dichiarato di Lire 100.000.000 [ibidem, 11].
Appartamento in via Boner, a Messina, tre vani più servizi acquistati da Giovanna Timpani. Valore dichiarato di 46 milioni [ibidem].
Appartamento in via Boner, donato dalla suocera Vincenza Settineri alla figlia. Valore dichiarato di 40 milioni [ibidem].
Immobile a Roccalumera, confiscato nel novembre 1995 a Vincenza Settineri.
Villetta in Rometta, nel complesso "La Noria", confiscato a Vincenza Settineri nel novembre 1995.
Immobile intestato a Dorotea Timpani, sito in Milano, via Valle Isorno 3, valore dichiarato di 31 milioni [SP3 1994, 4].
Immobile sito in Messina, villaggio Santo, intestato a Tatiana Reni (figlia di Dorotea Timpani), del valore dichiarato di 60 milioni [ibidem].
In totale - compresi i beni citati - sono stati sequestrati 27 appartamenti, nove ditte individuali, 17 quote di partecipazioni azionarie, un posto barca a Portorosa, una azienda che sì occupava di vendite commerciali in televisione, una dozzina di conti correnti bancari, alcuni titoli di Stato, sette barche e varie autovetture.

La stima del giro di affari complessivo di Sparacio raggiungerebbe i 20 miliardi. Tuttavia, il boss di Giostra non ha mai svolto alcuna attività lavorativa ed ha presentato solo un modello 101 nel 1987, per un imponibile Irpef uguale a "0". Anche la moglie ha presentato dichiarazioni dei redditi (mod. 740) per un imponibile insignificante (1 milione e mezzo nel 1986, "0" nel 1987) [cfr. SP 1993, 12]. La cognata Dorotea Timpani aveva dichiarato redditi bassissimi (1985 e 1986) e nulli (1988 - 1989 - 1990), pur avendo acquistato negli stessi anni due immobili, otto automezzi ed avendo intrattenuto numerosi rapporti bancari [SP 1994, 3].

Ovviamente, è la sproporzione tra i redditi dichiarati ed i beni posseduti che ha giustificato il sequestro dei beni di Luigi Sparacio, di Vincenza Settineri e di Dorotea Timpani.





II. Imprese finanziate, in tutto o in parte, con i proventi del crimine

"Capurro Giuseppe: trattasi di personaggio di notevole spessore criminoso, protagonista di una espansione economica rilevantissima ed attuata in tempi estremamente rapidi" [PN 1995, 40].

Secondo gli inquirenti, nell'organizzazione diretta da Sparacio e dalla Settineri (v. par. 3.1.2), Capurro avrebbe avuto un ruolo fondamentale, fornendo i capitali destinati ai prestiti ad usura e mascherando gli affari illeciti con Vincenza Settineri e Dorotea Timpani mediante falsi rapporti di scambio di derrate alimentari dei suoi supermercati [ibidem], connessi alla gestione dei supermercati di rispettiva pertinenza ("Gsm" e "Conca d'oro").

Capurro viene ritenuto organico alla organizzazione Sparacio, in quanto:

1. ha emesso prestiti ad usura col tasso del 30 % mensile, comprovati da assegni sequestrati il 22 dicembre 1992 e da dichiarazioni coincidenti delle parti offese e di un imputato;

2. ha effettuato direttamente, come gli altri membri dell'organizzazione, le richieste estorsive accompagnate da minacce, come dichiarato dalla vittima Natale Briguglio;

3. è in rapporti di affari sia col vertice che con gli altri membri dell'associazione, comprovati dalle transazioni finanziarie e commerciali ricostruite dagli inquirenti [ibidem].

E' appena il caso di ricordare che dal punto di vista giuridico può essere dubbio il concetto di "inserimento organico"; dal punto di vista delle relazioni socio-economiche la 'macchina' Sparacio-Settineri-Capurro è uno strumento che, utilizzando la violenza nei confronti delle vittime e le disponibilità finanziarie dell'associazione, approfitta dello stato di bisogno (spesso indotto dal sistema creditizio ufficiale) di soggetti in difficoltà economiche. con il fine di moltiplicare il capitale iniziale ed acquisire il controllo delle attività economiche delle vittime.

In seguito all'operazione Pirañ a, la magistratura ordinava l'arresto nei confronti di Capurro, il 4 luglio del 1995; la scarcerazione - essendo cessate le esigenze di natura cautelare - il 16 agosto 1995; nei mesi successivi sono state richiesti il soggiorno obbligato e la misura della sorveglianza speciale. Indipendentemente dalla sentenza emessa nei confronti di Capurro, e da ogni decisione di carattere giuridico-penale, emergono già adesso una serie di elementi di grande significato sociologico e socio-economico.

In questo quadro, si inseriscono i provvedimenti ulteriori ordinati ai danni di Capurro, disposti dal Tribunale su richiesta della Questura:

"E' il più grosso sequestro di beni operato nella provincia di Messina, per 25 miliardi e costituisce il risultato di una indagine partita nel 1992". L'azione è stata condotta alla fine di dicembre del 1995 contro l'intero patrimonio di Giuseppe Capurro, ai sensi dell'art. 2 bis della legge 575/1965.

Il sequestro riguarda:


5 supermercati della catena "GSM '83"
Punti vendita di via Ghibellina, piazza XX settembre, via San Giovanni Bosco (zona centro) e di contrada San Michele e viale Italia (zona nord).


12 immobili, tra botteghe ed appartamenti
Locale deposito di piazza XX settembre del valore di 1 miliardo e mezzo; locale bottega di piazza XX settembre del valore di 1 miliardo e 800 milioni; locale bottega di viale Italia del valore di 68 più 176 milioni; appartamenti per un valore di 2 miliardi e 474 milioni circa.


16 automezzi di varia cilindrata
Autovetture Saab, Volvo, Opel, Lancia, Volkswagen, più motocicli ed autocarri Fiat Iveco, in genere intestati alla "GSM".


6 conti correnti bancari
Presso il Banco di Sicilia e l'Istituto Bancario S.Paolo per un saldo attivo di circa 60 milioni


certificati di deposito
Certificati San Paolo per circa 88 milioni più titoli per 140 milioni


azioni di società quotate in borsa
Azioni della Banca Agricola Popolare di Ragusa e di altre società per un totale di circa 70 milioni


tot.
25 miliardi circa


[cfr. CP2 1995, passim]

Gli inquirenti ovviamente ritenevano che il patrimonio sequestrato fosse frutto delle attività illecite dell'associazione mafiosa facente capo a Sparacio, in cui lo stesso Capurro sarebbe stato inserito. A riprova di questa ipotesi, si cita la notevole sproporzione tra il patrimonio dichiarato - poche decine di milioni - e quello effettivamente detenuto, anche attraverso prestanome [cfr. Gaz 30 dicembre 1995].

"[...] Pertanto la notevole sperequazione tra gli acquisti operati [da Capurro nel corso degli anni] e l'entità dei redditi apparentemente dichiarati fa ritenere, almeno in questa fase, sussistenti gli indizi in ordine alla provenienza di essi da attività illecita" [CP1 1996, 3].



Redditi imponibili denunciati da Capurro [CP2 1995, 59]

anno
modello
ufficio
imponibile IRPEF

1990
740/770
Messina
2.187.000

1991
740
Messina
0

1992
740
Messina
2.022.000

1993
740
Messina
53.195.000




Redditi imponibili denunciati da Grazia Rizzo (moglie di Capurro)

[CP2 1995, 59]

anno
modello
ufficio
imponibile IRPEF

1990
740
Messina
5.368.000

1991
740
Messina
0

1992
740
Messina
9.612.000

1993
740
Messina
29.605.000




Quote di utile di esercizio della GSM 83 [CP2 1995, 60]

anno
utile di esercizio
quota destinata all'amministratore

1991
78.431.120
30.000.000

1992
46.583.110
10.000.000

1993
36.140.400
10.000.000

1994
84.120.142
40.000.000






Capurro destinerebbe una parte degli utili della "GSM" per "precostituire una pur risibile parvenza di liceità alle proprie effettive fonti di reddito" [CP2 1995, 60]. L'alto di tenore di vita della famiglia Capurro appare infatti sproporzionata ai redditi dichiarati.

Uno degli esempi più evidenti in questo senso è l'acquisto di parte di un immobile da parte di Caterina Capurro (una delle figlie). "Villa Capurro", già villa Stagnini, è stata edificata negli anni '30 e presenta un elegante prospetto.

La villa è stata ristrutturata con il rifacimento degli impianti (elettrico, riscaldamento, etc.) e con l'aggiunta di particolari "esclusivi" come il sistema di allarme e gli alzaserrande elettrici. I lavori - eseguiti nel 1992 - hanno comportato una spesa di 70-100 milioni.

Una perizia attribuisce all'appartamento della Capurro il valore di 1 miliardo e 370 milioni. Caterina, tuttavia, se lo era aggiudicato nel 1991 in asta pubblica per soli 480 milioni.

Per il 1990, i redditi dichiarati dei coniugi Torchia-Capurro ammontano a 60 milioni circa. Dalla vendita nel 1988 di un altro immobile, la Capurro aveva ricavato 30 milioni. Non risultano crediti da parte di banche per il periodo in questione.

Appare quindi evidente che il tenore di vita dei coniugi Torchia è sproporzionato al loro reddito, così come non sembrano giustificabili le ingenti spese affrontate. Le conclusioni cui giunge la Questura è che il denaro proviene da Capurro, il quale spesso fattura come "GSM" le spese sostenute per sé e per la propria famiglia, ed ancora più spesso non fattura per niente, preferendo evadere il fisco [CP2 1995, 56 sgg].

Un altro esempio chiarissimo è l'acquisto datato 1992 di un locale-deposito di circa 1300 metri quadri, sito in piazza XX settembre sotto uno dei supermercati "GSM", acquistato da Capurro, dalla moglie e da due delle figlie per la cifra di L.1.566.923.000. Abbiamo già visto che i redditi dichiarati dai Capurro non risultano certo proporzionati all'esborso di una simile cifra (nel '92 Capurro dichiarava un imponibile IRPEF di 2 milioni, nel '91 di "zero").



Uno degli elementi più importanti che emergono dalla vicenda è la vertiginosa ascesa sociale di Capurro: negli anni '70 aveva infatti iniziato come piccolo commerciante di pesce ed alla metà degli anni '90 si ritrovava proprietario di una catena di cinque supermarket, "ubicati in zone nevralgiche" [CP2 1995, 30] della città di Messina. La sua catena riesce a raggiungere una posizione predominante rispetto alla concorrenza. Dal 1990 in poi Capurro avrebbe investito almeno tre miliardi [ibidem, 76].

Gli organi inquirenti, tuttavia, hanno ripetutamente ipotizzato che l'ascesa di Capurro sia stata facilitata dall'uso di mezzi illegali e pratiche criminali. Tra i tanti esempi, è utile citare l'acquisto della società "Market S.Michele di Rotella Francesco e C. sas", che nel giugno 1995 diventa uno dei punti vendita "GSM". Già dal novembre 1994, Capurro controllava l'esercizio commerciale, ed all'acquisto si accolla passività per mezzo miliardo, del tutto sproporzionate al breve periodo di attività dell'impresa. Di qui l'ipotesi per cui si tratterebbe dell'ennesima impresa "vampirizzata" e fagocitata da Capurro [cfr. CP2 1995, 64]. Del resto, anche i locali acquistati nel 1995 e pronti per ospitare l'ultimo dei punti vendita "GSM" , già allestiti con tanto di insegna, sono stati acquistati dal costruttore edile Gaspare Grifò nell'ambito di una vendita fallimentare [ibidem].

Nella fase centrale della sua carriera Capurro si dedica al commercio al minuto ed all'ingrosso di carni e prodotti ittici. Nel 1992 cessa l'attività di ditta individuale per dedicarsi alla "GSM 83 srl", costituita già nel 1983. Dal 1987 fino al settembre 1995 Capurro ricopre la carica di amministratore unico della "GSM", quindi cede la carica alla moglie.

La società nasce con otto soci, la maggior parte dei quali nati a Saponara (in provincia di Messina). Dal 1987 Capurro acquisisce il 100% delle quote. Recentemente ha ceduto il 50 % alla moglie. Nel 1995 è stato deliberato l'aumento di capitale da 80 a 250 milioni.

La sua ascesa è tuttavia costellata da disavventure giudiziarie, tipiche dell'imprenditore che si muove lungo il confine che separa il legale dall'illegale. Due accuse di usura (una nell'ambito dell'operazione Pirañ a, l'altra come stralcio del processo a Vincenza Settineri), precedenti per contravvenzioni, frode in commercio, violazione della legge sugli alimenti. E' stato inoltre imputato per false fatturazioni ed altri reati.

Secondo la Questura, Capurro "non solo non ha mai esitato a minacciare ed intimidire le proprie vittime al fine di recuperare le somme illecitamente lucrate, ma ha utilizzato gli stessi metodi per tentare di far prevalere i propri interessi economici privati".

"A riprova di quanto affermato è sufficiente citare la denuncia sporta [...] alla locale Procura della Repubblica in data 6 maggio 94 del consigliere comunale Luigi Mazzullo, il quale afferma di aver subito minacce di pesanti ritorsioni da parte di Capurro, a causa del suo impegno in seno al Consiglio comunale di Messina, che in quel periodo discuteva dell'approvazione del Piano Commerciale.

Mazzullo lamentava l'eccessivo favoritismo nei confronti della grande distribuzione a scapito dei piccoli esercizi e, pertanto, sarebbe stato vittima di Capurro, che fermandolo per strada, gli rivolgeva queste testuali parole: 'se continui a ficcare il naso nelle licenze commerciali ti faccio sparare. Goditi la famiglia, perché ormai per me sei un uomo morto" [CP2 1995, 47-48].

Al culmine della sua carriera imprenditoriale, Capurro irrompe clamorosamente nel mondo dello sport messinese: il supermercato "Gsm '83" è stato infatti sponsor (nella stagione precedente ai fatti in questione) della PCR, squadra di basket femminile di serie A1 e - nella stagione allora in corso - dell'UNRRA CASAS, una formazione di pallavolo femminile di serie A2.

Si configura così una sistema integrato che coinvolge vari aspetti socio-economici e culturali, riassumibili schematicamente in questo modo:

L'economia mafiosa non si presenta come corpo separato ma entra in relazione con il mondo economico ufficiale, al fine di raggiungere l'obiettivo comune, cioè la moltiplicazione delle quote di ricchezza detenute.
L'avanzata dell'economia mafiosa, anche nella città di Messina, non riguarda solo zone periferiche o elementi marginali, ma si inserisce nel centro cittadino (materialmente e simbolicamente) , il che implica evidentemente una omertà di massa interclassista ed una legittimazione di fatto dell'imprenditore mafioso all'interno dell'alta borghesia.
Le attività riconducibili alla cosca Sparacio appaiono estremamente diversificate, integrando - per esempio - pratiche criminali con attività di grande distribuzione. Compare quindi il fenomeno dell'ibridazione tra prassi arcaiche (l'esazione fondata sulla violenza) ed attività moderne, come l'uso di raffinati strumenti finanziari.
Le attività appaiono estremamente sofisticate, richiedendo grandi capacità organizzative e conoscenze tecniche non comuni, di certo superiori a quelle proprie di delinquenti cresciuti in periferia.
L'effetto principale del 'sistema Sparacio' è la legittimazione sociale, sotto due punti di vista: materiale, perché le imprese mafiose 'procurano lavoro' e coinvolgono un ampio raggio di soggetti (banche, media che ospitano pubblicità, professionisti, ...) che entrano in contatto col denaro mafioso.
Vi è poi una legittimazione di tipo simbolico-culturale, determinata in particolare dall'ingresso di Capurro - come sponsor - nel mondo sportivo. L'abbinamento del suo marchio alle vittorie sportive genera - nell'immaginario collettivo - l'immagine dell'imprenditore che 'fa molto per la città' e di conseguenza non va condannato. A questo punto la mafiosità del soggetto diventa un fatto secondario. Anzi, l'accertamento delle sue responsabilità penali viene visto come ostacolo alla promozione dell'immagine della città.




III. Imprese esercitate con violenza o minacce

La cosca imprenditrice di Sparacio agisce anche secondo la terza tipologia ipotizzata. Qui le attività economiche, in genere appalti pubblici, sono condotte utilizzando le capacità criminali della cosca, in primis chiaramente l'uso della violenza (che solitamente rimane in sottofondo, come risorsa potenziale), ma anche le capacità di corruzione dovute alle notevoli disponibilità finanziarie.

Un esempio è la vicenda relativa al "Cimitero degli Inglesi". Si tratta di un'area di proprietà del Comune data in uso agli inglesi, quando nel 1907 furono sepolte le salme che si trovavano in un piccolo cimitero della zona falcata.

Sparacio ha riferito che nel 1992 un componente della famiglia Leonardi (gli imprenditori coinvolti nella ristrutturazione del Gran Camposanto) lo avvicinò proponendogli una operazione speculativa all'interno del Camposanto, nell'area destinata alle sepolture degli inglesi. Secondo l'accusa della magistratura, l'obiettivo era l'appropriazione di una cospicua parte del Gran camposanto allo scopo di realizzare tremila loculi, del valore di due milioni ciascuno (una operazione da sei miliardi di lire).

Nella veste di imputati, per i reati di abuso d'ufficio e vilipendio di tombe si ritrovarono l'ex direttore della ripartizione cimiteri Mario Giordano e gli imprenditori Luigi Serra e Rosario Leonardi, i quali erano anche imputati di falso per avere esibito documenti del Consolato britannico che, secondo l'accusa, sarebbero palesemente contraffatti. L'ex assessore Giuseppe D'Andrea ha affermato che quando s'interessò dei servizi cimiteriali non si pose mai il problema della titolarità dell'area denominata "Cimitero degli inglesi".

"In sostanza l'ex boss della zona nord doveva partecipare all'affare come finanziatore e col compito di sfruttare il suo peso malavitoso sia per superare ostacoli, sia per corrompere alcuni funzionari comunali che lui conosceva. Gli fu riferito che nell'"operazione" erano coinvolti anche il direttore della ripartizione cimitero e qualche personaggio politico di primo piano della Democrazia cristiana. Tutto finì nel nulla, però, per l'intervento della magistratura" [Gaz 1 luglio 94, 5].

In particolare, Sparacio afferma di aver conosciuto il figlio del Leonardi, Antonio (uno degli imputati poi condannati), e di essere venuto a conoscenza della speculazione che s'intendeva portare avanti con l'avallo di personaggi politici vicini alla DC. In sostanza gli era stato offerto l'opportunità di entrare come socio nell'operazione, col compito di superare eventuali ostacoli di 'varia natura' che si potevano frapporre e di intervenire presso l'amministrazione se vi era necessità di corrompere qualcuno. Il figlio dell'imprenditore Leonardi ammette di conoscere Sparacio per un "prestito gratuito di 4 milioni di lire" [Gaz 22 novembre 94].

In sede processuale, Sparacio afferma: "Accettai il coinvolgimento in questa operazione in quanto conoscevo di vista il dott. Giordano che sapevo essere protetto dall'onorevole Giuseppe Astone. Ad un certo punto, però, seppi che in questa operazione erano interessati alcuni gruppi politici che, però, non erano riusciti a mettersi d'accordo. Infatti, qualche politico fece una confidenza alla Guardia di finanza, segnalò i lavori che si stavano eseguendo al Cimitero e di conseguenza scattò l'indagine" [Gaz 27 ottobre 94].

Tra le dichiarazioni di Sparacio, assumono un grande interesse quelle relative all'Ente Fiera: lo scenario delineato denuncia la creazione da parte della mafia messinese di imprese e cooperative che si aggiudicavano appalti pubblici con la benedizione o il consenso della borghesia cittadina, dai politici ai presidenti degli Enti fino alle imprese concorrenti. Con tutti era possibile l'accordo:

"Nei mesi precedenti alla Fiera io e tutti i clan eravamo soliti riunirci per discutere delle attività illecite. Delegavamo Carmelo Marino, Pietro Presti, Antonello Puglisi e Mangano a curare l'aggiudicazione degli appalti e la gestione dei lavori, previo accordo con l'Antoci". Lo Sparacio ricostruisce l'attività all'interno della Fiera da parte dei 'gruppi'. Dal 1987 quando era ancora in vita Domenico Cavò e la sua ditta 'Ma.Ri.Va'.

Presidente di fatto della cooperativa era Carmelo Marino, anche se ufficialmente risultava la moglie. Vicino a questa cooperativa vi era un vigile urbano di nome Nunzio Rinaldi e lo stesso Pietro Presti. Nell'88 la cooperativa ottenne l'appalto delle pulizie e del servizio maschere presso l'Ente Fiera, mentre la gestione della biglietteria era toccata all'agenzia viaggi Alliatour dell'avvocato Allia. Di siffatti appalti si interessò per conto della Ma.Ri.Va. il Marino coadiuvato dal Rinaldi, che erano in stretto rapporto con il segretario della Fiera Pietro Antoci.

A riguardo preciso che il Presti fungeva da collegamento tra Antoci e noi, cioè con me stesso, il Cambria, il Galli e il Pimpo".

[Nel 1990 cambiano le ditte aggiudicatrici dell'appalto:] "nel '90 le forze dell'ordine stavano effettuando i primi accertamenti sulla gestione degli appalti e la cooperativa Ma.Ri.Va. risultava nel mirino della giustizia. Così Carmelo Marino mi contattò. Mi spiega che il segretario Antoci non poteva aggiudicare nuovamente l'appalto alla Ma.Ri.Va. per evitare di attirare i sospetti sui suoi collegamenti con noi. Per questo motivo io e Marino cercammo una società compiacente che poteva aggiudicarsi l'appalto per l'anno in corso.

Fu così che parlando con Mangano, titolare della 'Mancoop' con sede in via Falconieri, questi si rese disponibile". Sparacio allunga agli investigatori i particolari della campionaria: "Con l'interessamento di Antoci, la cooperativa predetta del Mangano vinse l'appalto delle pulizie, della raccolta dei rifiuti, il servizio di maschere e la biglietteria. Ricordo che all'inizio, la gestione della biglietteria era stata affidata all'agenzia Alliatour, ma dopo l'incontro che io ebbi con l'avv. Allia, presso la sua agenzia, lo stesso mi lasciò anche quest'ultima gestione". Aggiunge Sparacio: "Il guadagno netto veniva ripartito per il 50% alla società Mancoop e alle altre ditte che avevano effettuato i lavori in subappalto fra cui quella che forniva i mezzi di trasporto dei rifiuti a favore della stessa Mancoop di cui era responsabile Andrea Lo Presti.

Il 50% destinato alla Mancoop comprendeva anche le quote destinate al Marino ed al Pietro Presti. L'altro 50% invece andava a me, al Marchese, a Giuseppe Leo, tramite il suo affiliato Giorgio Mancuso, a Domenico Di Blasi e a Luigi Galli". [Sparacio racconta infine un suo incontro con Pietro Antoci:] "una mattina sapendo che lo potevo trovare nel suo ufficio, mi recai alla Fiera, unitamente a mio cugino Antonino Villari.

Trovai Antoci nel cortile antistante gli uffici della Fiera e dopo averlo ringraziato per la collaborazione fornita, questi mi disse che per qualunque cosa potevo rivolgermi tranquillamente a lui" [dichiarazioni di Sparacio cit. in "Centonove" 4 agosto 95].











Impresa mafiosa o zona grigia ? Il caso Longo

Tra le imprese messinesi, in particolare nel settore edilizio, esiste un'area di difficile definizione. Vedremo tra breve che, per ciò che riguarda il rapporto che si instaura nei casi di estorsione, è spesso estremamente difficile distinguere tra vittime e complici.

Analogamente, molte imprese si muovono o si sono mosse in rapporto a strutture criminali. E' problematico dire se questi rapporti siano stati occasionali, se siano stati determinati da costrizione o da legami di amicizia, se invece siano motivati da un reciproco interesse, infine se possano essere ritenuti anomalie oppure elementi sistemici.

Il caso dell'imprenditore edile Salvatore Longo è esemplare in questo senso.

Longo era già stato imputato al maxiprocesso, assolto dall'accusa di aver fatto parte, fino al 1985, del clan Cariolo. Ha tuttavia un precedente penale, la condanna per una rapina ai danni del consorzio autostradale A20 commessa il 3 settembre del 1979, in concorso con Giuseppe Cambria, Francesco Cardillo e Angelo Saraceno [cfr. ML 1996, 330].

Durante il periodo di detenzione, Longo aveva conosciuto Fresco, intorno al 1981, e quindi Surace (boss di Mangialupi). Terminato il periodo di detenzione (sarà ancora in carcere fino al 1986 in occasione del maxiprocesso), inizia a lavorare nell'edilizia, prima con mezzi modesti quindi in maniera più organizzata [ibidem].

Nella sentenza a carico del clan Mangialupi molte pagine sono dedicate alla figura di Longo ed al suo ruolo: l'ipotesi dell'accusa è riassunta nella tabella sottostante e ripropone la rete di rapporti di scambio ipotizzati in precedenza nella sezione dedicata ai rapporti tra mafia e imprenditoria.



Longo - Mangialupi: i reciproci vantaggi nelle ipotesi del PM [ML 1996, 329 sgg.]



B - C (vantaggi per il clan)
\
Longo avrebbe finanziato l'organizzazione

di Surace


2
Longo avrebbe sostenuto il clan con piccoli e grandi favori


1
Longo avrebbe offerto un canale per contatti con politici

C-B (vantaggi per Longo)
1
Longo avrebbe goduto di forme di scoraggiamento della concorrenza mediante intimidazioni, ottenendo così gli appalti


2
Talora gli appalti sarebbero stati ottenuti mediante forme di corruzione di funzionari pubblici


Va subito detto che la corte ha assolto Longo smontando punto per punto l'impianto accusatorio. Gli elementi raccolti rimangono tuttavia di grande rilevanza. E' bene richiamare quanto affermato nell'introduzione: il compito del magistrato è quello di provare l'esistenza di determinate relazioni e di verificare se tali relazioni possono essere inquadrate in una specifica fattispecie di reato (associazione mafiosa o eventualmente concorso esterno, nel caso Longo).

Il lavoro di analisi sociologica è molto diverso: ha il compito di verificare l'esistenza di determinate relazioni sociali (in questo caso i rapporti di scambio tra l'impresa edile ed il clan criminale) ed indicare la funzione svolta da queste reti di relazioni. Dalle carte processuali emergono elementi che, se pure possono non costituire reato, assumono comunque grande rilevanza dal punto di vista sociologico e socio-economico.





B- C

1. Finanziamenti al clan. Secondo Surace, il servizio di "scoraggiamento della concorrenza" era pagato da Longo direttamente versando denaro nel fondo cassa del clan. Si tratta di un aspetto effettivamente provato, anche perché ammesso dallo stesso imputato. Le erogazioni di denaro da Longo a Surace, a giudizio dell'imputato e della Corte, erano destinate all'amico e non al gruppo criminale.

Le somme, giustificate talvolta come compenso al lavoro di manovale da parte del figlio di Salvatore Surace, Cono (il quale, però, di fatto non lavorava), erano versate saltuariamente e partivano da un minimo di 500mila lire fino a 2-3 milioni.

Resta il problema: si tratta di finanziamenti ad una cosca, del corrispettivo per i servizi criminali resi all'imprenditore, o di semplici favori tra amici ?

I giudici optano per la seconda ipotesi, portando a sostegno della tesi le parole di Surace che "riconduce i versamenti nel fondo cassa al tramite di Fresco" (cioè, sarebbe stato l'affiliato Fresco a girare il denaro nella cassa comune del clan, ma la questione non è stata approfondita in dibattimento) e "afferma che altri contributi venivano erogati in forza di un rapporto personale tra la sua famiglia e Longo".

"In ogni caso" concludono i giudici, "è del tutto evidente che finanziare l'associazione è cosa ben diversa dall'effettuare versamenti in favore del capo della stessa".

2. Favori. Longo ha assunto il figlio di Surace nel suo cantiere. L'assunzione era fittizia, "per fare in modo di avere qualche registrazione". Una parte della retribuzione è stata versata anche dopo il licenziamento. In un secondo momento, infatti, il comportamento di Cono Surace nel cantiere "era diventato inaccettabile per il Longo, il quale continuava a pagarlo per evitare che continuasse a disturbare gli altri operai".

Ma perché Longo avrebbe assunto Cono Surace ? Le interpretazioni del PM e quelle della Corte sono divergenti: secondo il primo Cono sarebbe stato l'anello di congiunzione tra l'impresa e l'organizzazione. La Corte, invece, attribuisce l'assunzione "ad un sentimento quasi paterno che il Longo nutriva nei confronti del ragazzo"; afferma infatti Surace: "Ma veramente più che lavorare non è che lavorava, il Longo se lo portava anche per levarlo [...] da quell'ambiente di ragazzi un po' malfamato..."

Poco prima, tuttavia, si ipotizzava "una sorta di pressione da parte di Surace", un'"estorsione strisciante" di cui Longo sarebbe stato in qualche modo vittima, in occasione dei favori che rendeva.

Secondo Surace, Longo "si sarebbe reso disponibile a custodire qualche arma del gruppo". "Ha tenuto qualche pistola, ha fatto qualche nascondiglio". Cesare Palermo, un altro collaborante già affiliato a Mangialupi, afferma che "se gli chiedevamo, mettiamo, una macchina per trasportare qualcosa senza che lui sapeva ce la dava, non c'era nessun problema... Se dovevamo portare qualche cosa con la sua macchina, andavamo da lui: 'dammi la macchina', e ci dava la macchina".

Al riguardo la Corte ha affermato l'occasionalità dei favori, l'assenza di indicazioni concrete e l'estraneità di Longo agli scopi dell'associazione, di cui non era a conoscenza.

In più, Longo ha effettuato lavori edili in una casa di Giovanni Trovato e nel supermercato di proprietà della sua famiglia. Trovato è uno degli affiliati al clan di Mangialupi [cfr. ML 1996, 330 sgg.]. Anche queste prestazioni sono state ricondotte nell'ambito dei favori personali.

3. Contatti con politici. Le affermazioni dei collaboratori Surace e Fresco, riportate nella sentenza, sono generiche. Si parla di versamenti in favore di esponenti politici durante campagne elettorali. Alcuni versamenti sarebbero stati effettuati tramite Longo, l'ipotetico legame tra i politici ed il clan di Mangialupi. Con questi pochi dati, la Corte non prende in considerazione le affermazioni dei collaboranti [ibidem, 334].







C- B

1. Minacce a concorrenti. L'ipotesi riguarda minacce rivolte ad alcuni dei concorrenti di Longo nelle gare di appalto bandite dallo IACP (Istituto Autonomo Case Popolari) al fine di farli desistere dalla partecipazioni o di fare presentare offerte tali da consentire a Longo l'aggiudicazione.

Si cita il caso dell'imprenditore edile Sulfaro. Secondo Cono Surace, Longo e Fresco avrebbero "messo una pistola in faccia" a Sulfaro, inducendolo così ad accordarsi con Longo nella presentazione di offerte allo IACP. In questo modo, l'impresa Longo avrebbe ottenuto un numero sempre crescente di appalti espandendosi in modo notevole.

Sentito come teste, Sulfaro ha "decisamente escluso la circostanza", affermando anzi di "essere in ottimi rapporti" con Longo. Anche qui, c'è stata una divergenza di vedute tra la Corte ed il PM, che ha ipotizzato la paura del Sulfaro. Il collegio giudicante, in assenza di altri riscontri, ha concluso che non ci sono prove rispetto alla questione delle minacce ai concorrenti.

Tuttavia, i funzionari dello IACP sentiti come testimoni hanno escluso anomalie in gare collegate con Longo, tranne il caso dell'impresa Beninato che presentò una strana offerta con un ribasso "palesemente al di sotto del limite di economicità dei lavori". La questione è molto interessante: non è stata però approfondita, visto che nella sentenza è solo citata [ibidem, 329 sgg.].

2. Corruzione di funzionari pubblici. Nelle ipotesi formulate in istruttoria si ritiene che "Longo abbia fondato sulla corruzione sistematica dei funzionari [dello IACP] la gestione della propria azienda ed abbia, nell'esecuzione degli appalti così ottenuta, frodato l'istituto simulando l'esecuzione delle opere, avvantaggiandosi magari della compiacenza di chi doveva controllarlo" [ML 1996, 331].

Queste ipotesi non sono state prese in considerazione, quindi non approfondite, perché ritenute irrilevanti "ai fini della prova del reato contestato", cioè la partecipazione di Longo all'associazione criminosa Mangialupi. Dal punto di vista che adesso ci interessa, costituiscono una variante (o un'aggravante, o un'aggiunta) che eventualmente integra la rete di relazione col segmento che riguarda il centro erogatore di spesa pubblica, in questo caso lo IACP [ibidem, 329 sgg.].







Imprese mafiose: beni sequestrati in Mangialupi

A proposito dell'attentato effettuato nel '90 dal clan di Mangialupi nei confronti del supermercato 3/A dei fratelli Costanzo, si citano i motivi che erano alla base del gesto: si parla ovviamente della "volontà di riaffermare il controllo del gruppo sul quartiere Mangialupi" ed anche della volontà di "ammorbidire la concorrenza che [il 3/A] avrebbe potuto fare al supermercato della famiglia Trischitta aperto non lontano al villaggio Aldisio" [ML 1996, 132].

Proprio uno dei Trischitta, Giuseppe, era tra gli esecutori materiali dell'attentato. La sua posizione è stata stralciata, così come quella di Alfredo Trovato. In attesa del chiarimento delle posizioni dei due imputati, la Corte impegnata nel processo al clan di Mangialupi ha confermato il sequestro dei beni riconducibili in qualche misura agli accusati, tra i quali quelli intestati a:

- Sicilmarket s.r.l.

- Francesco Trischitta & C. s.n.c.

- Francesco Trischitta

- Franco Trovato

- Angelo Trischitta

- Giovanna Pellegrino

Si tratta in genere di un nucleo di esercizi commerciali attivi nella vendita al dettaglio di generi alimentari, localizzati in varie zone della città.





Impresa complice ? Il caso Russotti

Abbiamo già incontrato l'impresa Russotti nell'ambito dei rapporti tra politica e imprenditoria. Si tratta in effetti di uno dei casi più interessanti: ci troviamo probabilmente in presenza di una impresa attiva in un rapporto di tipo "triangolare": da un lato gli scambi con la politica, dall'altro quelli con le organizzazioni criminali. Della prima tipologia ci siamo già occupati, vediamo adesso la seconda.

Alla fine degli anni '70, si acuisce lo scontro tra i De Stefano di Reggio Calabria e le 'ndrine della Piana. In questo contesto, l'imprenditore messinese Russotti si trova ad operare su un territorio conteso da bande criminali. Vediamo quale comportamento adotta:

"I De Stefano, nella fattispecie rappresentati da Giorgio - non l'avvocato - da un certo momento in poi avevano tentato di allargare la loro zona di influenza territoriale violando gli accordi già definiti da tempo. Prova della vecchia violazione di tali accordi è quella che vide il clan De Stefano, che prima della penultima guerra di mafia li vedeva alleati ai clan Piromalli-Mammoliti, tentare di invadere il territorio di Campo Calabro, dove un noto imprenditore di Messina, tale Russotti, stava eseguendo i lavori per la costruzione di un acquedotto che doveva sorgere esattamente in Fiumara di Muro.

In quest'ultimo luogo esisteva una forte presenza di affiliati al clan De Stefano [...]. In virtù di tale forte presenza, Giorgio De Stefano (non l'avvocato) si presentò personalmente al Russotti appena questi installò il cantiere per l'esecuzione dei citati lavori, esigendo una consistente mazzetta perché egli dichiarò di essere il capo incontrastato della zona.

Il Russotti ebbe a incontrare il De Stefano alla presenza di tale Vincenzo Zinnato - della Piana di Gioia Tauro e rappresentante dei Piromalli e dei Mammoliti - ed evidenziò al De Stefano che egli era 'portato' dai Piromalli-Mammoliti e che quindi lui aveva adempiuto alle relative 'obbligazioni'.

Fatto sta che il Giorgio De Stefano si impose e il Russotti pagò allo stesso una grossa mazzetta" [Dichiarazioni del collaborante Filippo Barreca, 25 maggio 1993, in OL 1995, vol. II].

Una testimonianza di Luigi Sparacio (al processo a carico di Saro Mammoliti, boss di primissimo piano della 'ndrangheta) contribuisce a configurare il caso Russotti come quello della tipica impresa complice:

"A Messina Saro Mammoliti aveva interessi grossi e diretti. In particolare aveva nelle mani l'imprenditore Russotti del quale controllava l'attività imprenditoriale.

Per questo, aveva spedito a Messina un suo parente, mi pare un nipote del Mammoliti, che abitava a Contesse e che lavorava con il Russotti.

[Russotti] "non veniva toccato per il rispetto dovuto a don Saro che era un capo riconosciuto anche in Sicilia".

[In una sola occasione l'imprenditore Russotti avrebbe tentato di fare il furbo con Mammoliti] e per questo subì un attentato, gli spararono contro mentre era sulla sua Rolls Royce blindata. Ma non volevano ucciderlo, bensì soltanto spaventarlo".

[Sparacio aggiunge di avere stretto buoni rapporti con Saverio Mammoliti dopo esserlo andato a trovare nel carcere di Cosenza:] "Ci entrai senza nessun problema perché il direttore del carcere era un uomo di don Saro, ci fece entrare e pranzare con lui".

[In seguito da Mammoliti avrebbe anche avuto qualche fornitura di armi:] "Ci servivano perché eravamo in guerra con quelli legati a Gaetano Costa. Anche il Russotti ci aiutò durante la guerra mettendoci a disposizione una villa dove noi tenevamo armi ed autovetture e stavamo pronti a colpire i nostri nemici" [dichiarazioni di Sparacio, cit. in Gaz 9 mar 95, 9; edizione di Reggio C.].





Estorsioni: vittime o complici ?

"La mia esperienza di dirigente nazionale del Movimento antiracket mi porta a concludere che il rapporto di 'vittima' è costante nel caso di piccole imprese. Quando si tratta di grosse imprese, invece, il rapporto si configura in maniera diversa" [Tano Grasso, intervista all'isola del 7 gennaio 1994, 6].

Abbiamo già visto e vedremo ancora che questa affermazione, nella parte relativa alle grandi imprese, trova ampie conferme sia nell'area messinese che nel resto del Meridione.

Scrive ancora Tano Grasso, in riferimento all'esperienza dell'associazionismo antiracket:

"Fra l'altro, le denunce sono state sempre di piccoli operatori economici, soprattutto commercianti. Le grandi imprese sono state assolutamente estranee al movimento antiracket. Diverse strutture giudiziarie in questi anni si sono occupate e continuano ad occuparsi di vicende d'estorsione che vedono coinvolte grandi aziende.

[...] E' evidente, intanto, che è assai più probabile che un'azienda di modeste dimensioni possa essere del tutto una vittima degli estortori rispetto ad un imprenditore di grandi dimensioni. Una piccola impresa è debole, da atti intimidatori verrebbe messa in ginocchio; si potrebbe giustificare, soprattutto quando il sopravvento la solitudine e la paura in quelle aree di antica e radicata presenza mafiosa, anche se il limite di giustificazione, in seguito all'esperienza delle associazioni antiracket, deve essere contenuto.

Diverso è il discorso quando l'imposizione estorsiva è subita da grandi aziende: è sempre meno giustificabile e sempre meno credibile la semplice condizione di vittima. La grande impresa ha forza, ha potere e mezzi per opporsi efficacemente, collaborando con le istituzioni, alle richieste del racket." [Grasso 1997, 21-22].

Abbiamo visto nei paragrafi precedenti che anche titolari di piccoli esercizi adottano comportamenti timorosi, non denunciano le minacce, negano spesso l'evidenza, se intendono opporre resistenza si affidano a risorse individuali rifiutando sia l'azione collettiva sia la denuncia agli organi statali.

Il discorso è davvero complesso per i piccoli esercizi: rimane spesso fuori discussione il ruolo di vittima, ma va inquadrato in una situazione di sistema che schiaccia con la forza della violenza la volontà individuale e di fatto costringe ad aderire - almeno coi comportamenti - al sistema stesso. E' certamente difficile dire dove finisce il potere intimidatorio della forza e dove comincia l'adesione individuale ad un modello, sia pure per assuefazione o fatalismo.

I casi che adesso esamineremo, tuttavia, sono molto diversi tra loro e per ognuno è possibile ipotizzare differenti gradi di 'colpevolezza': si passa infatti da situazioni in cui è palese la sopraffazione dovuta alla violenza (anche solo ipotetica) a casi in cui l'intervento del mafioso è addirittura richiesto dall'esercente/imprenditore e talvolta utilizzato con funzioni di 'ordine pubblico'.

Il primo caso in esame riguarda una piccolissima impresa situata in una zona di mafia. L'ultimo caso concerne una delle più grandi aziende messinesi, che opera a livello nazionale con un fatturato miliardario.

1. La situazione delle piccole imprese messinesi è estremamente complessa. Per avere un quadro più chiaro è utile riferirsi ad un caso esemplare, l'estorsione al caseificio del rione Giostra di proprietà di Paolo Calogero, vicenda citata nel paragrafo sulle attività del clan Galli, di Giostra.

La trascrizione dell'interrogatorio subito in udienza da Paolo Calogero può essere utile per decostruire una tipologia del rapporto estortore/estorto nella città di Messina:

"P.M. - Senta, lei ha mai ricevuto in tutta la sua vita richieste estorsive?

TESTE - No estorsive, no.

PM - Ha ricevuto richieste di regali ?

T. - No regali no. Io regali no.

PM - Ha mai fatto dei regali a qualcuno ?

T. - Sì, qualche mozzarella, qualche formaggio

PM - A chi regala mozzarelle lei, signor Calogero ?

T. - Ma, sa, in quella zona ormai uno conosce pressappoco, venivano magari qualcuno e gli facevo qualche sconticino, qualche mozzarella in regalo.

PM - Cioè ? Clienti abituali ? A quelli che pagano ogni volta lei ogni tanto fa uno sconto, questo intende dire ?

T. - No.

PM - E allora che significa ? Ci spieghi che significa 'uno conosce', che vuol dire ?

T. - No, venivano gente ragazzi che io conoscevo, magari volevano fatto qualche sconticino glielo facevo.

PM - [...] Sconticini oppure regali lei ha detto ?

T. - Qualche volta gli regalavo qualche mozzarella, un po' di ricotta.

PM - [...] A chi lo fa il regalino ?

T. - Agli amici, l'ho detto.

PM - [...] Può fare il nome di qualche persona alla quale solitamente fa degli sconti ?

T. - Ora io come nome non è che li riconosco ecco.

PM - Sa fare il nome di qualche persona a cui regala dei latticini ?

T. - Io come cognome, come nome non li conosco, li conosco come clienti e come così, come cognomi non mi ricordo.

PM - Senta, lei conosce Luigi Galli ?

T. - Mah, in questa zona si conosce questa persona, vah; qualche volta veniva, pagava, gli facevo qualche sconticino e via, ma mi presentavo sempre a..., mai mi hanno..., da brava persona almeno".

[OG 1996, 140 sgg.]

Calogero avrebbe dovuto spiegare perché forniva merce gratuitamente ad alcune persone, le stesse indicate dai magistrati come il vertice del clan Giostra. I tentativi di spiegazione sono incoerenti e fragili, così come appare curiosa la supposta spontaneità dei regali.

Da questa vicenda, trova conferma l'ipotesi del dominio territoriale di una cosca mafiosa su un'area specifica: un potere non solo militare, materiale ed economico, ma anche ideologico e culturale ?

2. La vicenda dell'estorsione da parte del clan di Mangialupi ai negozi di abbigliamento di proprietà dei fratelli Chirico è per certi aspetti ancora più sconcertante. Si tratta di due rivendite, una sita in piazza Palazzotto, a Provinciale, nella zona che delimita il centro cittadino; l'altra sul viale San Martino, in pieno centro.

Agli atti del processo Mangialupi [ML 1996], ci sono le dichiarazioni del collaboratore Surace, beneficiario dell'estorsione stessa. Surace parla di una vicenda che inizia nel 1982, quando Domenico Leo e Giuseppe Leo lo invitarono ad interessarsi di una estorsione ai danni dei fratelli Chirico.

Surace, in cambio di una somma adeguata, mise i negozi sotto la sua protezione e per 10 anni aveva provveduto a ritirare le somme, con alcune interruzioni nel corso delle quali l'"affare" era stato ceduto momentaneamente a Sebastiano Valveri. Nel corso del tempo, la somma era stata anche aumentata in momenti di particolari necessità, come la carcerazione dello stesso Surace. In 10 anni, l'impresa Chirico ha pagato il pizzo per un totale di circa 100 milioni.

"Importantissima conferma delle dichiarazioni sopra sintetizzate [...] proviene da Antonino Chirico. Questi non aveva mai denunciato nel corso degli anni alcuna estorsione ai suoi danni. Sentito al riguardo dopo che Surace aveva affermato dell'esistenza delle richieste e dei pagamenti, ha reso in sede di indagini preliminari e ribadito in dibattimento dichiarazioni estremamente dettagliate circa tutta la dinamica del delitto perpetrato nei suoi confronti. Nel 1982/83 erano pervenute, per circa una settimana, sulle utenze installate nei diversi negozi della famiglia, alcune telefonate con le quali si intimava il pagamento della somma di £ 50.000.000 pena la distruzione degli esercizi commerciali. Chirico si era allora rivolto a Surace [corsivo mio], che conosceva come "il boss della zona... a Provinciale" e che vedeva sovente in un bar sito nei pressi del negozio" [ML 1996, 105-106].

"Nella zona si capiva" [afferma Chirico] "perché, sa, Provinciale è un ambiente in cui le cose si sanno; nel momento, nell'82 [Surace] era un boss, specialmente per quanto riguardava tutte 'ste faccende qua, che sistemava le cose" [ML 1996, 281].

Dopo qualche giorno, Surace risponde alla richiesta e pretende il pagamento di 5 milioni. I fratelli Chirico esprimono la preoccupazione "che episodi del genere potessero ripetersi in futuro" [ibidem, 106]. A questo punto Surace offre un "servizio di protezione permanente", con un corrispettivo mensile fissato in mezzo milione.

"La conferma da parte dell'offeso", affermano i giudici nella sentenza Mangialupi [ML 1996, 107] "elimina ogni dubbio in ordine alla sussistenza dell'estorsione ed alle vicende della stessa".

I negozi Chirico non riceveranno più minacce, in quanto negli ambienti criminali si era diffusa la notizia della protezione da parte del clan di Mangialupi.

Non cessano solamente le richieste estorsive, ma "anche le molestie di più modesto rilievo provenienti da tossicodipendenti che circolavano nella zona" [ibidem, 281].

"Tali molestie, nel corso di circa undici anni nel corso dei quali l'estorsione si protrae, di tanto in tanto tornano a manifestarsi. In tali casi Chirico non si rivolge alle forze dell'ordine, che del resto non potrebbero evidentemente fornirgli un supporto realmente efficace rispetto alla microcriminalità diffusa [sic], ma sollecita i suoi estortori: 'Guardate, proteggetemi meglio perché qua la sera si chiude il locale e mi chiedono soldi quando esco in macchina'. In seguito a tali sollecitazioni, previo ritocco all'aumento del pizzo mensile, la protezione viene 'rafforzata' e il Chirico può tornare a lavorare tranquillo" [ML 1996, 281].

Solo una volta, in seguito ad alcune telefonate, Chirico aumenta spontaneamente la quota pagata a Surace, interpretando in tale modo il significato delle telefonate anonime. I primi estortori, comunque, non si faranno più sentire. Chirico non denuncerà mai nessuna delle richieste estorsive, e renderà pubblica la vicenda in sede processuale solo dopo che il suo estortore, da collaboratore di giustizia, avrà raccontato ai magistrati del fatto in questione. Il rifiuto di ulteriori pagamenti arriva infatti solo nel 1993, quando Chirico viene convocato dai carabinieri e così comprende l'inizio della collaborazione da parte di Surace.

La vicenda, più che il tradizionale rapporto vittima /estortore sembra mostrare, da un lato, una agenzia che offre un servizio illegale (la protezione privata) e dall'altro un cliente che questo servizio richiede e paga.

L'aspetto paradossale della vicenda è che il servizio in questione, nella struttura dello Stato moderno, è assicurato in esclusiva dalla "forza pubblica", che formalmente non riconosce ad alcuno deroghe o concessioni ("sub-appalti") nell'uso della violenza e nella protezione della vita e dei beni.

E' del tutto ovvio che i gruppi criminali non riconoscano tale monopolio. Ma gli imprenditori messinesi (o almeno alcuni tra loro) ? Non si comportano, da un altro punto di vista, secondo la stessa logica ?

3. Gli esempi in tal senso sono numerosi. Tra questi va segnalato il caso dell'impresa edile di Carmelo Giuffrè. Anche questa estorsione inizia nel 1982, in un cantiere di Camaro San Paolo. La vicenda è raccontata nella sentenza del processo Mangialupi, in quanto anche questa volta il protagonista è Salvatore Surace.

I magistrati ritengono che la ricostruzione più credibile della vicenda sia quella dello stesso estorto:

"L'origine dell'estorsione, nel ricordo del Giuffrè, è da individuare in una visita che due sconosciuti ('uno magrolino e uno un po' più robusto') avevano fatto al cantiere per chiedere la somma di £ 30.000.000, adducendo necessità non meglio precisate. Giuffrè aveva subito risposto che la richiesta era eccessiva, ma aveva temporeggiato rimandando ad un successivo incontro ogni decisione. All'epoca lavorava nel cantiere Francesco Surace, fratello del collaborante [Salvatore], al quale l'imprenditore aveva confidato il problema. Il dipendente gli aveva suggerito di dire agli estortori che era amico di Pippo Leo e Salvatore Surace ("Pippo e Salvatore"), cosa che Giuffrè aveva fatto." [ML 1996, 114]

Surace interviene e permette la riduzione della somma a 5 milioni. Poi si presenta al cantiere e propone la sua assunzione, come guardiano, per 1 milione mensile. Surace, nonostante l'assunzione fosse stata regolarmente formalizzata, non si recava al cantiere, né a Giuffrè interessava che lo facesse.

Secondo la migliore tradizione mafiosa (cfr. il capitolo di ricostruzione storica), per il servizio di guardianìa è sufficiente che si sappia che il cantiere è sotto protezione. Ognuno saprà poi regolarsi di conseguenza, guardandosi bene dal chiedere il pizzo o danneggiare gli attrezzi o disturbare i lavori.

Ed infatti, fino al 1984, data della chiusura del cantiere, nessuna molestia sarà arrecata all'impresa Giuffrè, neanche durante il periodo di carcerazione di Surace. In questa circostanza, le forme erano state salvaguardate con la comunicazione agli uffici competenti dell'avvenuto licenziamento, ma la sostanza rimaneva immutata, mediante la consegna tramite intermediario dello stipendio mensile [ibidem, 115].

Il rapporto tra Giuffrè e Surace si interrompe per appena due anni. Dal 1986, la "EdilGiuffrè" inizia a costruire il complesso "Poggio dei Pini" in località San Michele, nella zona nord di Messina.

"Sostiene Surace che, poco dopo l'apertura del cantiere, l'imprenditore aveva ricevuto la richiesta di una somma di denaro consistente, nell'ordine di alcune centinaia di milioni di lire, da parte di Pietro Bonsignore e Giuseppe Amante, affiliati al gruppo di Placido Cambria. Le richieste erano state accompagnate dal furto di alcuni attrezzi del cantiere e dall'esplosione di alcuni colpi di pistola contro una baracca. Giuffrè aveva contattato il Surace il quale si era accordato con Cambria e Gaetano Costa per ridurre la somma pretesa a £ 100.000.000 [Giuffrè parla di 50 milioni]." [ML 1996, 118]

La somma era stata versata a rate e spartita tra i vari gruppi del clan Costa, compreso quello di Surace, che in più riottenne il versamento del milione mensile. In questo periodo, essendo stato quasi sempre detenuto, Surace affidava la riscossione ai suoi uomini. In alcune occasioni Giuffrè aveva pagato con assegni a firma della figlia. Un assegno da 5 milioni era stato fatto cambiare a Salvatore Longo (v. supra).

"Conferma di tutta la vicenda viene da parte dell'offeso. Questi ha dichiarato in dibattimento che, dopo il furto e il danneggiamento subiti, si era rivolto al Surace tramite il danneggiamento di questo, riprendendo il rapporto di guardiania già attivato nel cantiere di Camaro." [ibidem].

L'iniziale richiesta di denaro, dunque era stata opera del clan di Giostra. Giuffrè aveva fatto di sapere di essere protetto da Surace, che aveva raggiunto in carcere un accordo con Cambria. Il denaro era tra l'altro molto utile in considerazione del maxi processo che proprio in quel periodo si celebrava contro le cosche. E' però da notare che, nonostante la carcerazione dei principali esponenti dei clan, delitti ed accordi erano ugualmente pianificati.

Successivamente, il clan di Mangialupi, divenuto autonomo, assume il totale controllo dell'estorsione [ibidem, 119-120]. Nel corso del procedimento, il Giuffrè ammette il minimo indispensabile:

"Il teste davanti al Tribunale si è ben guardato dal fornire indicazione che potessero rivelarsi utili all'identificazione di tutti quei soggetti che nel contesto dell'estorsione erano venuti in contatto con lui. Su tale punto è rimasto nel vago ovvero si è trincerato dietro un cattivo ricordo [...]" [ML 1996, 122].

Perché l'imprenditore Giuffrè accetta il sistema della protezione mafiosa ? E' il diretto interessato, in sede dibattimentale, a fornire una risposta:

"Io sa perché ho accettato queste cose e queste cose qua ? Perché ho risparmiato una cosa intorno a 9 o 8 milioni al mese, proprio glielo voglio precisare perché queste certe cose se vanno bene in un posto non possono andare bene in un altro. [...] Io non avevo scelta in questo preciso momento" [ML 1996, 283].

Secondo l'inchiesta condotta dal sostituto procuratore Franco Langher, Giuffrè ed il genero Giuseppe Marchetta sarebbero i mandanti dell'agguato all'avvocato Antonio Giuffrida, ferito a Messina il 17 gennaio 1991, e dell'avvocato Francesco Ricciardi, gambizzato a Patti il 19 luglio del 1991.

Marchetta si sarebbe rivolto a Sparacio per punire i due legali, uno dei quali aveva presentato istanza di fallimento contro la "EdilGiuffrè", mentre l'altro ne era stato nominato curatore fallimentare. Il boss di Giostra avrebbe ordinato ai suoi gregari di eseguire gli attentati. L'inchiesta è partita proprio dalle dichiarazioni di Sparacio e di Pasquale Castorina, anche lui pentito [Gaz 16 febbraio 96].

Se l'ipotesi degli investigatori sarà confermata in giudizio, si configura un rapporto diadico per cui le cosche diventano agenzie di servizi criminali, servizi pagati dall'imprenditore al fine di favorire i propri interessi economici. Avremmo quindi un rapporto di scambio all'interno di un legame mafia-imprenditoria.

4. L'atteggiamento di Mauro Bisceglia, altro bersaglio delle richieste estorsive del clan di Mangialupi, ricorda perfettamente quello assunto da Paolo Calogero nei confronti del clan Galli. Bisceglie, proprietario della salumeria Fiorucci, nega di aver subito minacce o richieste estorsive, ammette semplicemente 'regalie' ad esponenti della cosca, in particolare ad un suo dipendente rinchiuso per un certo periodo in carcere [ML 1996, 123-125].

5. La vicenda della rosticceria Nunnari è perfettamente in linea con le precedenti. Il titolare dell'esercizio non denuncia le richieste di estorsione ed in più, dopo le dichiarazioni di Surace, si dimostra reticente al punto da essere arrestato per false dichiarazioni al PM.

Solo a questo punto, Giuseppe Nunnari (figlio del titolare all'epoca del fatto e suo successore nella conduzione dell'azienda) ammette di aver pagato per 10 anni, dal 1982 al 1992, anno in cui aveva cessato l'attività.

Surace afferma che l'estorsione era stata iniziata da Luigi Sparacio, con la richiesta di 100 milioni ed una serie di attentati intimidatori (incendio della saracinesca, furto di salumi).

"A questo punto, Nunnari si era rivolto ad un suo parente, (Carmelo) Simone Alessandro, il quale aveva una relazione sentimentale con una zia di Pippo Leo. Quest'ultimo, tramite il fratello Domenico, aveva mandato a dire a Surace di interessarsi della questione. Il collaborante [Surace] aveva dapprima contattato Sparacio, quindi aveva incontrato in casa propria il figlio del titolare della rosticceria, che nell'occasione era accompagnato da Domenico Leo. L'accordo era stato concluso per il pagamento una tantum della somma di 10 o 15 milioni che era stata consegnata a Sparacio, salvo un paio di milioni che questi aveva regalato al collaborante quale compenso per l'intermediazione. Nel medesimo frangente, cogliendo l'occasione, Surace aveva chiesto a Nunnari il pagamento di una somma mensile di £ 1.000.000/ 1.500.000, quale compenso per la futura protezione" [ML 1996, 139].

Nunnari, inoltre, aveva assunto un fratello ed un cognato di Surace, che lavoravano regolarmente. In dibattimento, ha ammesso i pagamenti mensili a Surace ma ha dichiarato di non essere in grado di identificare gli altri esattori. Poche altre le ammissioni di Nunnari:

"Prima del 1982 si erano verificate alcune rapine nella rosticceria, era stato ritrovato un ordigno esplosivo e vi erano state delle minacce telefoniche. Nello stesso anno il Nunnari aveva incontrato Surace in un bar di via Garibaldi. In quell'occasione era stata versata al collaborante la somma di £ 10.000.000 ed era stato assunto l'impegno del pagamento di una ulteriore somma mensile" [ML 1996, 140].







Le estorsioni del clan di Mangialupi [cfr. ML 1996, 104-146]






impresa
attività
zona
atteggiamento del titolare

Chirico
negozi di abbigliamento
Provinciale,

v.le S.Martino
richiede la protezione di Surace in seguito a richieste estorsive di un altro gruppo

Edil-Giuffrè
edilizia
Camaro,

San Michele
richiede la protezione di Surace in seguito a richieste estorsive di un altro gruppo

Bisceglia
salumeria "Fiorucci"
via Cesare Battisti
in tribunale ammette le "regalìe", ma nega di aver subito minacce

Fiorino
deposito alimentari - despar
via c.botta (t. cannizzaro sopra tribunale)
inizialmente (1983) denuncia le richieste, poi paga

3/A - f.lli Costanzo
supermercato
rione Mangialupi
attivazione di una trattativa tra clan Santapaola (protettore dei Costanzo) e messinesi

Nunnari
rosticceria
centro cittadino
richiede protezione in seguito a richieste estorsive di un altro gruppo -

viene arrestato a causa della sua reticenza

Ranieri
distributore IP
Contrada Fucile
non denuncia l'estorsione - viene arrestato a causa della sua reticenza




6. La storia che segue è sulla falsariga delle precedenti, ma con una importante specificità. Non siamo più nel campo dei piccoli esercizi o delle medie imprese ma ci interessiamo di una tra le principali aziende messinesi.

La vicenda relativa all'impresa Caffè Barbera è raccontata nella sentenza denominata "Orsa maggiore":

"Samperi e Grancagnolo parlano della estorsione perpetrata ai danni del commerciante di caffè messinese Barbera Vittorio. Questi aveva problemi nel catanese in quanto gli rapinavano continuamente i furgoni che portavano il caffè ai clienti; conosceva un certo Orazio il Pazzo, tifoso del Catania che a sua volta conosceva bene Samperi e fece da tramite per farli incontrare; il contatto avvenne nel locale bar di Campanella sul lungomare di Ognina, con il Campanella medesimo ed Aldo Ercolano: poi Samperi e Grancagnolo andarono a trovare il Barbera a Messina, nei suoi uffici, gli portarono Romeo [il cognato di Santapaola residente a Messina] e gli dissero che a questo avrebbe dovuto versare 2.500.000 o 3 milioni al mese.

In conseguenza di tali acquisizioni processuali, si è dovuto istruire il fatto-reato, con l'esame del titolare della ditta, dr. Barbera Vittorio, e del di lui figlio Antonino; essi testi si sono districati con molta cautela, ma sostanzialmente hanno confermato le dichiarazioni dei collaboranti, almeno sulle modalità dell'estorsione, ma non sull'epilogo - ovviamente.

In particolare, Barbera junior ha confermato l'incontro al bar Paradise di Catania, e senior le visite dei catanesi a Messina: afferma peraltro il Vittorio che egli rifiutò le condizioni che gli venivano proposte e licenziò i due interlocutori con un regalo una tantum, preferendo risolvere il suo problema facendo fare ai suoi furgoni un percorso che evitava il punto, vicino Acireale, dove venivano sistematicamente rapinati." [OM 1997, 636 sgg.]

La conclusione raccontata dai Barbera lascia spazio a notevoli dubbi, ed inoltre la loro testimonianza è caratterizzata da incongruenze: gli stessi magistrati catanesi attribuiscono le divergenze ad "eccessiva cautela, per la considerazione che malavitosi del calibro dei due, i quali agivano peraltro su mandato del più autorevole componente della famiglia [Santapaola], non potevano essere trattati come straccioni da accontentare con un regalo, specie considerando che questa era l'occasione buona, per la famiglia, di mettere le mani su una ricca azienda" [ibidem].

I protagonisti, Samperi, Romeo sono giustamente indicati come emissari della famiglia catanese di Cosa Nostra. I Barbera, oltre che importanti industriali del caffè, sono da anni sponsor di una squadra messinese di basket femminile, giunta fino ai vertici della serie A1.

7. Abbiamo iniziato con un piccolissimo esercizio situato nell'area di Giostra. Concludiamo con un esempio opposto a quello di Calogero: qui si tratta della principale impresa messinese, attiva nel settore dell'edilizia, del turismo e detentrice del duopolio del traghettamento privato sullo Stretto.

Eppure alcuni comportamenti appaiono simili. Tra il 1986 ed il 1987 la "Tourist Ferry Boat" (gruppo Franza) pagò 15 milioni ai clan Marchese e Ferrara. Due attentati (la bomba piazzata su una nave il 21 settembre '86 e l'incendio di un ufficio nell'agosto '97) bastarono a convincere l'impresa al pagamento. Nell'ottobre '97 il rinvio a giudizio per gli attentatori [Gds 8 novembre 1997].





La linea sottile tra la vittima e il complice

Come si configura il rapporto tra imprese ed organizzazioni criminali a partire dai casi appena esaminati ? Qual è il discrimine che separa i complici dalle vittime? Possiamo distinguere tre diventi punti di vista, estremamente diversi l'uno dall'altro:

1. Materiale. Nella sentenza contro il clan Mangialupi, i giudici affermano che

"gli imprenditori parti offese dei delitti di estorsione contestati nel presente giudizio [Chirico, Giuffrè, Nunnari, etc.] hanno fornito all'associazione [criminale] un contributo costante e consistente perché ne hanno finanziato l'attività e talora hanno offerto assunzioni di favore a singoli partecipanti [dell'associazione] o a loro familiari, rendendosi in buona sostanza complici del potere mafioso e assumendo il ruolo di erogatori di denaro e di prestazione nell'ambito dell'organizzazione.

Essi, invece di rivolgersi alle autorità ed avvalersi degli strumenti di protezione pubblica apprestati dall'ordinamento, hanno ritenuto più conveniente subire il ricatto mafioso (si veda in proposito la richiamata teorizzazione dell'imprenditore Giuffrè), pur rendendosi certamente conto del contributo alla perpetuazione del sodalizio [criminoso] che offrivano con tale comportamento acquiescente" [ML 1996, 295].

La legittimazione offerta, alla cosca, ha contribuito di fatto ad affermare nella coscienza collettiva la necessità della presenza e delle funzioni svolte dal gruppo mafioso. I comportamenti acquiescenti e talvolta complici hanno contribuito ad una socializzazione alla rassegnazione, alla certezza dell'immutabilità della situazione presente, oltre che diffondere l'idea della forza intaccabile della mafia.

2. Etico. Da questo punto di vista, è unanime la condanna dei comportamenti descritti, anche per le motivazioni appena descritte. In più, è da ricordare che spesso la condanna è pronunciata in nome dell'ideologia derivata da Hobbes e dominante nel pensiero occidentale, per cui è lo Stato l'unico difensore dei beni e della sicurezza dei suoi cittadini, essendo illecito in questo settore ogni intervento di altre entità.

3. Giuridico. Se l'ottica del punto 2 è quella più chiara e su cui esiste il maggior consenso, almeno a livello teorico, il punto di vista giuridico è più controverso.

"Rispetto a tali situazioni", si legge nella sentenza Mangialupi [cit., 295] "l'unico elemento che consente di distinguere il partecipe dalla vittima è quello soggettivo".

Essendo dunque chiari gli elementi oggettivi (appena descritti al punto 1), l'elemento discriminante è "il dolo specifico consistente nell'intento di ottenere vantaggi di qualunque tipo attraverso lo sfruttamento, diretto o indiretto, dell'assoggettamento omertoso scaturente dal vincolo associativo" [ibidem].

"Quando, pertanto, le categorie sopra richiamate sono mosse nel loro rapporto con l'associazione mafiosa, non dall'assoggettamento o non solo da questo, ma perseguono un interesse personale, sia esso di tipo economico o di altra natura (si pensi al tornaconto elettorale del politico o all'allontanamento si concorrenti dal mercato in favore dell'imprenditore), i loro esponenti divengono a pieno titolo partecipi del sodalizio e come tali vanno chiamati a rispondere del reato.

Si intreccia in questo caso una fitta rete di rapporti di scambio tra la società civile e la mafia che non può essere ricondotta semplicemente alla coartazione e all'assoggettamento" [ibidem].





Politica - Imprenditoria

Abbiamo già chiarito che il sistema sociale meridionale si è retto fin qui tramite l'orientamento politico dei flussi di denaro pubblico ed un sistema di spartizione con le imprese. Messina non è sfuggita a questa regola, anzi.

Anche a Messina ha largamente prevalso "un sistema di tangenti e illeciti finanziamenti creato con il concorso di persone che, per funzioni politiche o amministrative, potevano influire sulle decisioni di pubbliche amministrazioni; e di persone che, in relazione alle loro attività economiche o imprenditoriali, avevano rapporto con la pubblica amministrazione" [l'Unità, 14 settembre 94].

Non sempre il rapporto tra impresa e politica è suggellato dal pagamento di tangenti. Spesso una saggia politica di alleanze risulta più proficua.

Il primo grande blocco di potere creato con l'unione tra politici ed imprenditori risale agli anni '70, quando si crea la fusione tra Nino Gullotti, potente della Dc messinese e successivamente tesserato P2, e la famiglia Franza, che ottiene il servizio di traghettamento dello Stretto, affiancando così la flotta delle FS, assicurandosi un affare favoloso e creando così un gruppo imprenditoriale di tutto rilievo, attivo nel settore alberghiero, nell'edilizia, nel turismo.

Dell'impresa Russotti ci occupiamo anche nel paragrafo dedicato ai rapporti tra mafia e imprenditoria. Dal punto di vista dei rapporti con la politica, i Russotti si segnalano all'attenzione della magistratura per la vicenda dei 'traghetti d'oro', navi di seconda mano rifilati ad una società dello Stato grazie al ministro palermitano Giovanni Gioia, componente di primo piano del blocco di potere politico - imprenditoriale - mafioso che ha dominato a lungo il capoluogo siciliano: una comunanza di interessi esemplificata dalle opposizioni nella sigla Va.Li.Gio (Vassallo, Lima, Gioia).

I Russotti sono stati coinvolti in molte altre vicende di ordinaria corruzione, spreco, sfruttamento del denaro pubblico, ma sono usciti sempre assolti dalle vicende giudiziarie.

Negli anni '80, Messina è la città che ha espresso contemporaneamente un ministro, Nicola Capria (Psi), e quattro sottosegretari: quelli alla difesa Giuseppe Astone (Dc) e Dino Madaudo (Psdi), quello all'agricoltura Francesco Cimino (Psi), e quello agli interni Saverio D'Aquino (Pli). Tutti, eccetto Cimino, plurinquisiti.

E' chiaro che Messina poteva usufruire di un consistente flusso di denaro pubblico. Le cronache hanno parlato di una vera e propria 'cupola politico - imprenditoriale' che abitualmente si spartiva tale flusso e gestiva gli appalti pubblici della provincia.

I protagonisti principali di questo sistema sono il democristiano Astone e il socialista Capria per i politici, ed il costruttore Versaci per ciò che riguarda le imprese.

Più che ripercorrere le singole vicende di corruzione, del resto ampiamente documentate dalle cronache della stampa e dagli atti dei processi, vediamo brevemente alcuni elementi chiave del sistema nell'area messinese.

Antonio Presti, 'mecenate' della Fiumara d'arte di Castel di Tusa, dopo aver ricevuto un avviso di garanzia, è stato il primo imprenditore a presentarsi ai giudici per parlare della corruzione a Messina.

Il suo racconto contribuisce a dimostrare che le responsabilità sono da dividere tra tutti i soggetti coinvolti: se ai politici andavano le mazzette, gli imprenditori ottenevano gli appalti. Si tratta di una spartizione, e nessuno può legittimamente presentarsi come vittima.

In una intervista ad un settimanale locale, Presti afferma:

"Per diversi anni ho pagato tangenti. Il sistema in voga in quegli anni era quello. Ho saputo che questo era il sistema utilizzato parlando con gli altri imprenditori. Pagavamo il 10 % sull'importo dell'appalto, dopo aver vinto la gara.

Io contattavo gli altri imprenditori e ci mettevamo d'accordo su chi doveva vincere la gara. A quel punto, conoscendo i ribassi delle altre imprese, il gioco era facile.

Il mio referente era l'imprenditore Antonio Versaci. Gli consegnavo i soldi in contanti a pezzi da centomila, chiusi in una ventiquattr'ore. I soldi glieli portavo io nel suo ufficio di Capri Leone. Mi è sempre stato detto che arrivavano a Giuseppe Astone.

Sapevo anche che quel famoso 10 % che eravamo costretti a pagare veniva diviso tra politici e mafiosi. In tutti questi anni ho pagato circa trecento milioni.

Non appena ho denunciato il sistema hanno cercato di bloccarmi. Questa è stata la prima reazione contro la mia opposizione al pagamento delle tangenti. C'è tutta la vicenda delle sculture di Fiumara d'Arte.

E poi ho subito anche minacce. Hanno messo anche una bomba nel mio albergo, l'Atelier sul mare a Castel di Tusa.

Oggi non è cambiato nulla. Io non ho mai avuto un referente politico. Anche oggi per lavorare bisogna avere un 'protettore'. Né tanto meno voglio fare come qualche altro imprenditore che ha collaborato con i magistrati e che sta utilizzando le sue confessioni per riciclarsi e tornare a galla".





Mafia - magistratura

Accanto ad una magistratura che ha avviato una azione repressiva contro i clan messinesi, ci potrebbero essere dei giudici che non hanno svolto con onestà il loro compito. Una serie di inchieste sono arrivate ad ipotizzare una rete di rapporti di scambio tra magistrati e mafiosi, che in tale modo hanno goduto a lungo dell'impunità:

- Domenico Cucchiara, ex presidente della Corte di Assise di Messina.

La richiesta di rinvio a giudizio è del 30 maggio 1995. Alla vigilia del processo Cucchiara era stato trasferito dal penale al civile. La Procura di Reggio Calabria accusa Cucchiara di associazione per delinquere di stampo mafioso, corruzione in atti giudiziari, detenzione e cessione di sostanze stupefacenti e concorso nel reato di sfruttamento della prostituzione.

"Tali reati, secondo la Procura distrettuale reggina, emergerebbero dai fatti riferiti da diversi collaboratori di giustizia e dagli accertamenti svolti dalla polizia giudiziaria. Anche per questo i magistrati chiedono il rinvio a giudizio, in concorso col dottor Cucchiara, anche dei pentiti Luigi Sparacio e Umberto Santacaterina.

Sarebbero stati loro a corrompere l'alto magistrato offrendogli cocaina, droga-party e top-model dai facili costumi in cambio di sentenze di favore.

In particolare, tra gli episodi ricostruiti nell'inchiesta e contestati al magistrato messinese, trovano posto la sentenza emessa dalla Corte presieduta dal dottor Cucchiara il 23 gennaio 1991. Questi, secondo l'accusa, 'si lasciava corrompere per compiere un atto contrario ai suoi doveri d'ufficio in favore di Trischitta Pietro, imputato del tentato omicidio in pregiudizio degli agenti di polizia Dominici Enrico e Pecoraro Ignazio, consistito nell'alleggerirne la posizione processuale con irrogazione di tenue condanna, determinata in anni 3 e mesi 3 di reclusione'. In cambio, secondo l'accusa, "accettava e riceveva le prestazioni sessuali di una ragazza di nazionalità spagnola messagli a disposizione da Sparacio Luigi, che se ne assumeva gli oneri di retribuzione, le spese del viaggio e quelle di soggiorno".

L'accusa di concorso nello sfruttamento della prostituzione e di ulteriori atti di corruzione viene avanzata, poi, con riferimento all'intervento che il dott. Cucchiara avrebbe operato in favore del boss Luigi Sparacio, assolvendolo nel "cosiddetto maxi-processo alle cosche messinesi" e ricevendo in cambio "prestazioni sessuali di altre non meglio identificate ragazze".

Ma il dott. Cucchiara, secondo la richiesta di rinvio a giudizio, avrebbe stretto saldi legami anche con il boss catanese Nitto Santapaola, al punto da vedersi contestata l'accusa di concorso in associazione mafiosa perché "contribuiva sistematicamente alle attività ed agli scopi criminali dell'associazione per delinquere facente capo alla cosca Santapaola di Catania ed ai suoi referenti messinesi del gruppo di Sparacio Luigi, garantendo il personale intervento nelle vicende giudiziarie concernenti esponenti dei clan citati a cui asserviva sentenze favorevoli, rafforzando cosi la stabilità della cosca ed il vincolo tra gli associati".

Infine l'accusa di detenzione e cessione illegale di sostanze stupefacenti perché riceveva da Santacaterina Umberto, deteneva e cedeva a terzi sostanza stupefacente del tipo cocaina".

Nelle dodici cartelle dattiloscritte che accompagnano e motivano la richiesta, i pubblici ministeri Boemi, Pennisi e Mollace evidenziano come le prime accuse contro l'ex presidente Cucchiara provenivano dal pentito Rosario Spatola e furono rese il 4 febbraio 1993 ai magistrati della Procura di Messina che, doverosamente, trasmisero gli atti a Reggio Calabria. Seguivano le conferme di Mario Marchese, prima, e di Luigi Sparacio, Salvatore Giorgianni e Gaetano Costa successivamente. Alla polizia giudiziaria venne indicata una villa di Messina dove Sparacio e gli altri organizzavano droga-party su richiesta del magistrato.

Infine si arrivò all'identificazione di una "entraîneuse" di Milano che era stata assoldata (due uomini a prestazione) e posta a disposizione, secondo l'accusa, del dottor Cucchiara.

Infine, buon ultime ma non per questo meno gravi e circostanziate, arrivavano le dichiarazioni accusatorie dei pentiti Iano Ferrara e Rosario Rizzo, anche loro concordi nel dire della collaudata disponibilità del magistrato verso i clan messinesi" [Gaz 31 maggio 95, 22; edizione di Reggio Calabria].

Il boss barcellonese Pino Chiofalo, uno dei pentiti impegnati nel processo, aveva dichiarato che Cucchiara aveva ricevuto da Santapaola l'ordine di incastrarlo con una condanna all'ergastolo.

Il 18 ottobre del 1997 si arriva alla sentenza: la Corte di Reggio Calabria, dopo 13 ore di camera di consiglio, ritiene Cucchiara colpevole di corruzione e gli infligge due anni, ma ritiene "non pienamente raggiunta" la prova per il concorso esterno in associazione mafiosa. Viene anche assolto per i reati di sfruttamento della prostituzione e possesso di sostanze stupefacenti [cfr. Gaz 19 ottobre 97, 13].

Già nel maggio del '74 Domenico Cucchiara aveva subito un provvedimento disciplinare dal Csm. Un agrumicoltore di Lentini lo aveva infatti denunciato accusandolo di avere ingaggiato un pregiudicato per truffarlo e poter rilevare così un terreno.

Nonostante questo incidente, il percorso di Domenico Cucchiara era stato quello che solitamente si definisce una brillante carriera: tra l'altro, era stato il fondatore a Messina, nel '78, di un centro di ricerca e studio della criminalità al quale viene riconosciuta personalità giuridica. Il centro opera nell'ambito dell'Organizzazione della Nazioni Unite e organizza ogni anno un corso "Intercenter" per le polizie di tutto il mondo [cfr. Gds 17 maggio 94, 33].



Se il caso Cucchiara è stato temporaneamente 'risolto' dalla sentenza di primo grado, altre vicende sono in attesa di una risoluzione. Ma anche al di là delle responsabilità penali, emergono comunque interessanti elementi di carattere 'sociologico' (legami, trattative, scambi, etc.):

- Antonio La Torre, presidente del Tribunale di Messina.

La vicenda si apre con un avviso di garanzia nel dicembre 1993 e successive dimissioni. E' accusato di corruzione e atti contrari ai doveri d'ufficio.

"La specifica accusa contro La Torre è invece di avere concordato la sentenza di assoluzione in appello per Sebastiano Valveri già condannato in assise per l'omicidio di Santi Giaimo [avvenuto in Piazza Due Vie il 14 febbraio dell'80].

La Torre voleva cento milioni ma alla fine della trattativa scese a settanta. Uno dei pentiti che ricostruisce la vicenda era il cassiere della cosca Leo: aveva 120 milioni in cassa ma settanta li dovette consegnare al capo per La Torre. Valveri venne assolto. Leo spiegò ai sottoposti che il danaro era stato speso bene. Poi arrivò la Cassazione per annullare quella sentenza giudicata "contraddittoria", con affermazioni "apodittiche" e strane valutazioni" [Gds 20 marzo 94, 4].



- Giovanni Serraino, ex presidente di Corte di Appello, è stato coinvolto in una storia di presunti appalti pilotati; all'epoca delle indagini è magistrato in pensione. [Gds 31 gennaio 1994, 56]



- Francesco Mancuso, presidente del Tribunale di sorveglianza.

L'accusa è di corruzione e atti contrari ai doveri d'ufficio. "I gip Russo e Cisterna scrivono allora che la piattaforma probatoria dell'inchiesta sul giudice Mancuso, "è essenzialmente costituita per un verso da dichiarazioni e altresì, da corposi ed incisivi riferimenti cartaceo-documentali".

E i due magistrati riportano nella loro ordinanza, le dichiarazioni di Salvatore Surace rese a dicembre e a gennaio: "Per quanto riguarda i permessi di uscita devo precisare che erano finalizzati al compimento di attività criminose da parte degli associati ed anche per altre esigenze personali dei beneficiari"

Il pentito dice che "i permessi venivano ottenuti il più delle volte previo pagamento di somme di denaro, destinate al giudice Mancuso con versamenti in contanti fatti a lui personalmente, o tramite Nicolò La Monica di Sant'Agata di Militello". Salvatore Surace poi aggiunge che "in genere il denaro veniva consegnato al giudice da me o da Alfredo Fresco quando ottenevamo la libertà".

Il primo approccio di Surace con La Monica e con il magistrato sarebbe avvenuto nel 1987, "e tale sistema di corruzione, era praticato anche da altri gruppi associativi". E dopo il sequestro di ben 40 fascicoli di permessi, talora, secondo l'accusa, contenenti certificati di malattia fasulli, ieri è venuto l'arresto degli indagati per verificare, dicono i giudici inquirenti, ulteriori riscontri." [Gds 20 marzo 94, 4]

"Prima lo stesso Surace, poi la moglie Rosa Iannelli, quindi Giuseppe Stramandino ed il catanese Alfio Samperi detto 'u spacchiusu, ma anche altri detenuti vicini a Surace, hanno parlato dei permessi facili. Quasi sempre la libertà a pagamento sarebbe costata circa un milione al giorno: i permessi di malattia non superano i due giorni e le altre concessioni premiali solo raramente superano i cinque giorni fino ad un massimo di 15. E allora, secondo i pentiti, si presentava la domanda di permesso, si pagava ed il presidente Mancuso provvedeva.

E cosi i beneficiari delle "libere uscite", secondo l'accusa, potevano programmare estorsioni e rapine, effettuarle, darsi appuntamenti per il rifornimento di armi, sbrigare affari ed esaudire esigenze personali e poi rientrare tranquillamente in carcere e figurare nel "libro" di coloro cui spetta considerazione per la buona condotta.

Secondo Surace, trattamenti di favore sarebbero stati riservati con lo stesso sistema a detenuti calabresi e catanesi, questi ultimi appartenenti alla cosca del "Malpassotu" [Gds 20 marzo 96, 6].


















12. capitolo > L'economia mafiosa







Settori di attività



1. Estorsioni

2. Usura

3. Traffico di stupefacenti

4. Traffico di armi

5. Rapine









Estorsioni



Andamento grafico delle estorsioni accertate [AG 1997, 72]





Per avere un quadro, seppure approssimativo, delle estorsioni accertate nella città di Messina occorre sommare quelle già indicate in precedenza (relative ai clan di Giostra e Mangialupi) con quelle emerse nell'ambito di altri procedimenti:



Estorsioni citate nell'operazione Peloritana [OP 1997, passim]

pag
Imputato
Clan
Impresa
Data

24-25
Castorina
Sparacio - Settineri - Bruno Gentile
D'angelo, abbigliamento, v.le Europa
Fino feb '93


"
" "
Famulari, pasticceria, via Salandra
" "

29
Stellario Lentini
" "
Orazio Irrera gioielleria, via Palermo
Fino set '92

33
Cavò e Cambria
Cavò
" "
Fino '88

34
Claudio Ciraolo
Marchese, Cambria, Cavò, D. Mulè
Placido Giuttari ("Muschio e miele")
Fino '92

35
Galli
Galli
Francesco Franchina, elettrodomestici
Fino '92


" "
" "
Giuseppe Aversa, rist. La macina
" "

37
" "
" "
Mario Costantino, Mondial Market srl
Fino '91


" "
" "
Giovanni Vinci, società di alimentari
Fino '92


" "
" "
Antonino Bellamacina, abbigliamento
Fino feb 93


" "
" "
Giuseppe Licciardello, pneumatici
Feb '93

40
Giuseppe e Domenico Leo
Leo
Filippo Lanza, rist. "da Filippo"
Dal '79 e negli anni successivi


" "
" "
Pietro Scandurra ("Lady Mary")
" "

42
Domenico Leo
" "
Alfio Vitale, cantiere (20 mln)
1995

43
Giuseppe e Domenico Leo
" "
Bruno Giovinazzo (amm. Società Garibaldi
Estate 1988

45
Pasquale Maimone
Iano Ferrara -Domenico Di Dio
Giuseppe Leone, elettrodomestici
Fino feb 93


" "
" "
Francesco D'Angelo, ss 114, abbigliamento
" "


" "
" "
Giuseppe Luttino, gomme
" "


" "
" "
Francesco Garofalo, concession. Mercedes
Feb 93








Dichiarazioni di Cesare Palermo: imprese sottoposte ad estorsioni dal clan di Mangialupi tra la fine degli anni '80 ed i primi anni '90


tipologia
impresa
località


impresa edile
Bellinghieri
sede in via F. Bisazza


mobilificio
Manganaro
via Siracusa


impresa edile
Edilfer
sede in Contesse, p.zza Stazione


impresa edile
Ferrofir
?


impresa edile
Pettina
-


stazione di servizio
-
p.zza Trombetta


fioraio
Venuti
Zafferia


fotografo
Feminò
via Catania


macelleria
fratelli Di Pietro
via Taormina (?)

10.
ristorante
la Risacca (Leonardi)
Torre Faro (?)








Integrando i dati fin qui raccolti si ottiene un quadro generale che ci porta alle seguenti considerazioni:

1. La tassazione mafiosa ha avuto un carattere di massa, sia perché ha coinvolto un altissimo numero di esercizi commerciali ed imprese in genere, sia perché ha permesso un controllo 'a tappeto' sulle attività economiche e sul territorio cittadino.

2. Il racket non è stato problema delle periferie, delle zone controllate dai clan storici, ma di tutto il territorio urbano, compreso il centro cittadino ed il viale San Martino, ritenuto il 'salotto della città'.

3. Tale situazione ha permesso, oltre ovviamente al controllo del territorio, una forma di finanziamento costante e relativamente sicura delle cosche, e talvolta anche il loro inserimento nell'economia legale (v. il caso di Sparacio). Infatti, talvolta l'estorsione è solo il primo passo per l'inserimento del clan nell'impresa e per la progressiva espropriazione del titolare.

4. Il sistema delle estorsioni genera un clima di continua violenza e paura, tale da soffocare un'intera città (v. supra il par. "La violenza programmata").

5. Il silenzio su questa situazione, rotto solo nel 1996 con la costituzione dell'Associazione antiracket messinese, è il fatto più spaventoso che emerge.



L'ultimo punto rappresenta l'unica nota positiva. L'associazione antiracket e antiusura messinese (ASAM) nasce nel 1996, in seguito alla lotta inizialmente isolata di un imprenditore che denuncia i suoi estortori, il clan del Cep subito rigeneratosi dopo l'arresto di Iano Ferrara e capeggiato da Rosario Tamburella, già vice di Ferrara.

Le accuse sono di associazione mafiosa e tentata estorsione e riguardano 6 persone, condannate in primo grado ad un totale di 30 anni e 4 mesi. Significativamente, si costituiscono parte civile sia il Comune che Sos Impresa.

Nonostante questo segnale in controtendenza, il confronto con le altre realtà non lascia grande spazio alla soddisfazione o all'ottimismo, se si pensa che all'associazione antiracket aderiscono solo pochi esercizi in una città che vive quasi esclusivamente di commercio...

Alcune significative esperienze dell'associazionismo antiracket

città
nome associazione
anno di nascita
numero soci

Capo d'Orlando
ACIO
1990
104

S.Agata M.llo
ACIS
1991
120

Taurianova
ACT
1995
50

Cittanova
ACIPAC
1993
80

Messina
ASAM
1996
30

Catania
ASAEC
1991
150

Palermo
Sos Impresa
1991
97


In realtà ritenute ben più difficili come Taurianova e Cittanova le associazioni nascono prima e raccolgono un maggior numero di esercizi rispetto all'esperienza messinese, nonostante si tratti di due piccoli paesi in provincia di Reggio Calabria.

Anche il confronto con le grandi città siciliane è sfavorevole a Messina. Tuttavia, essendo una esperienza appena nata, ha grandi potenzialità di crescita.

Infine, le due tabelle seguenti non dovrebbero lasciare dubbi sulla gravità della situazione nell'area peloritana:

Confronto dati estorsioni - attentati - rapine gravi a Messina


media 1983/90
1991
1992
1993
1994
1995
media 1991/1995

estorsioni
92,75
79
120
76
79
79
86,6

attentati
61
212
175
80
11
14
98,4

rapine gravi
181,75
486
188
106
33
34
169,4




Confronto dati in 5 aree (periodo 1991-1995)


estorsioni
attentati
rapine gravi


indice
totale
indice
totale
indice
totale

Messina
13
433
14
492
25
847

Palermo
4
223
6
388
188
11483

Siracusa
18
353
7
147
8
158

Agrigento
6
144
5
129
14
328

Brindisi
22
443
19
393
20
406






Usura

Le dimensioni dell'usura a Messina sono state sempre ritenute notevoli e preoccupanti. Tuttavia, solo recenti inchieste partite dagli organi inquirenti hanno evidenziato la gravità del fenomeno.

Nel 1995, una lunga attività investigativa si concludeva con la cosiddetta "operazione Pirañ a", che smantellava una organizzazione dedita principalmente all'usura e facente capo a Sparacio, boss di Giostra.

L'organizzazione era così strutturata:

"E' individuabile un primo livello di finanziatori che, spesso, rimangono defilati rispetto ai rapporti con le vittime dei singoli reati, i cui rapporti vengono tenuti da un secondo livello di intermediari, qualche volta atteggiantisi ad amici delle persone offese dai reati in grado di aiutarle ad uscire dalla grave crisi economica in cui versano ma in realtà con il compito di spingere le persone in difficoltà economica e non più idonee ad essere accolte nei canali ufficiali del credito verso l'universo parallelo del credito usurario ed a precipitarle in una spirale, spesso senza alcun ritorno, alla fine della quale vi è soltanto un esponenziale accrescimento delle proprie esposizioni finanziarie, una irreversibile crisi economica ed una totale espoliazione dei propri beni" [PN 1995, 16].

Ma non ci si limita alla concessione dei prestiti: spesso i crediti vengono trasmessi a più soggetti, in un giro vorticoso di titoli di credito che comunque conferma l'esistenza di una organizzazione coesa e soprattutto di una dirigenza capace di programmare e gestire il flusso di denaro. Il braccio esecutivo dell'organizzazione svolgeva il compito di esazione mediante una "inesorabile attività estorsiva" [ibidem, 17]. Il fine delle attività era chiaro: impossessarsi lentamente ma inesorabilmente di ogni attività e bene economico delle vittime.

Queste ultime, tuttavia, hanno in genere mostrato un comportamento reticente, magari ammettendo di aver usufruito dei prestiti ma negando gli interessi usurari pattuiti. Emergono quindi tre elementi di rilievo.

Il potere intimidatorio esercitato dall'organizzazione, tipico delle strutture mafiose:
"[Giovanni Vitale, incaricato del 'recupero crediti',] ha dimostrato una pervicacia notevolissima, alternando [...] rozze intimidazioni a momenti in cui ha blandito la vittima cercando di dimostrarsi 'ragionevole' e 'comprensivo' [...] e dando prova, nell'attuazione del suo proposito criminoso, di saper muoversi su una vasta gamma di metodi di 'convincimento', dalle classiche minacce di morte alla costruzione di accuse false ed all'invio di messaggi trasversali anche a persone che avevano indagato su di lui" [ibidem, 32].

2. L'accertamento dell'esistenza anche a Messina di una criminalità di alto livello, capace di finalizzare in maniera ottimale le attività criminali all'accumulazione di capitale mediante una struttura complessa e sofisticata:

"[Il vertice dell'organizzazione (Luigi Sparacio, la suocera Vincenza Settineri, Giovanni Vitale)] esercita la sua odiosa attività in maniera professionale, quasi imprenditoriale, fornendo direttamente i capitali necessari per la concessione dei prestiti, tenendo i contatti con le vittime ed altre volte, con apparente ruolo di intermediario, mettendo in contatto le persone offese con altri componenti dell'associazione allo scopo di mantenere i capitali sempre all'interno dell'organizzazione criminale e di accrescerne i profitti" [ibidem, 27].

3. Infine, l'organizzazione non è certo una 'mela marcia' in un corpo sano:

"Una estesa area di imprenditori del settore commerciale, industriale, artigianale e dei servizi viene sempre più emarginata dal sistema bancario e creditizio istituzionale per essere spinta, spesso con la complicità diretta di appartenenti a tale sistema che, nel respingere i loro clienti, indicano loro le vie 'alternative' di ricorso al credito, ad una sorta di 'patto col diavolo' con individui rapaci e privi di scrupoli" [ibidem, 19].

Il denaro per i prestiti ad usura proveniva da varie fonti: tra queste - come detto - l'imprenditore Capurro. Secondo la vittima Briguglio, uno degli imputati (Cannarozzo) gli avrebbe riferito che il denaro proveniva da una cassa comune rifornita, tra gli altri, dal titolare dell'agenzia di viaggi "Allia Tour" [PN 1995, 45]. Allia, titolare dell'esercizio, ha tuttavia smentito decisamente e l'ipotesi non è stata approfondita in sede di indagini, mancando ogni riscontro che la potesse supportare.

L'organizzazione Sparacio, attraverso l'usura, riesce ad ottenere considerevoli profitti. I dati, tuttavia, si riferiscono ai soli accertamenti dell'autorità giudiziaria (verificati tramite controlli sugli spostamenti del denaro) e quindi sono presumibilmente sottostimati. Una stima del totale del denaro concesso in prestito, potrebbe essere di due miliardi, con l'impegno delle vittime a riconsegnare il doppio: i tassi variavano dal 30 al 50 %, ma della quota di 4 miliardi da restituire solo una parte giungerà nella tasche dell'organizzazione, a causa dell'eccessiva gravosità degli impegni e poi, ovviamente, dello smantellamento della struttura.



Usura: accumulazione di capitale dell'organizzazione Sparacio-Settineri


vittima
quota in prestito

(in milioni)
quota restituita

(in milioni)
periodo


N. Briguglio
50
65 + 60
fino al maggio 1992



15
19.5
" "



15
19.5
" "



10
13 + 40
" "



30
39.9
" "



10
11
fino al gennaio 1993



30
?
" "



5
3
" "



50
76 + 35
fino al febbraio 1992



30
39
fino al dicembre 1990



40
52 + 8
" "



5
6.5
nell'ottobre 1992



150
320 (in garanzia)
fino ad ottobre 1992



110
118 (in garanzia)

60 (versati)
da marzo 1992



10
13
da ottobre 1992



50
65
agosto 1990



50
65
settembre 1990



30
39
fino al maggio 1992



100
160
settembre 1991



50
65
settembre 1990



220
440 (impegno)

12 (pagati)

290 (pagati)

78 (pagati)
fino al maggio 1992


G. Catanzaro
50
138
fino al gennaio 1993



30
?
fino al 1991



70
70 (in garanzia)
ottobre 1991



100
200 (immobile)
fino al luglio 1993


P. Poguisch
8
10.4
fino ad ottobre 1992


G. Arceri
5
6
primi mesi del 1991



10
12
primi mesi del 1992



40
65 (in garanzia)
primi mesi del 1993


A. Fileti
11
quota in garanzia
fino al 1992


P. Portaro, S. Arnao
15
19
" "


B. Marino
13
13 + 3
fino al novembre 1992



33
100 (val. immobile)
agosto 1991


L. Giuseppe
30
21 (in garanzia)
fino a metà del 1993


N. Urso
10
23
fino ad aprile 1993

>
totale

2.360 circa



differenza

875 (+ 37 %)



Considerando che i dati si riferiscono alle sole transazioni accertate dalla magistratura, non è aleatorio ipotizzare un ricavo netto di almeno un miliardo in tre-quattro anni, solo dalle attività di usura. Da notare infine che le transazioni descritte, sia la concessione dei prestiti che la restituzione dei debiti con gli interessi, avvenivano preferibilmente tramite assegni che transitavano presso noti istituti di credito. L'operazione Pirañ a cita tra gli altri la Sicilcassa, il Banco di Sicilia, la Banca di Credito Popolare, la Banca del sud, il Banco industriale, la Banca commerciale italiana [cfr. PN 1995, 8 sgg.].

Resta ovviamente esclusa ogni responsabilità degli istituti di credito e si presume la loro buona fede: è opinione comune tuttavia che nel sistema finanziario italiano ed internazionale vale sempre più il principio "pecunia non olet". Questa vicenda sembra l'ennesima conferma dell'applicazione di tale massima.



Beni 'vampirizzati' dall'organizzazione Sparacio


Villetta sita in Rometta, complesso "La Noria", valore di 100 milioni


Il 33 % delle quote e controllo di fatto della concessionaria "Sud Car srl"


Abitazione in Saponara marittima


Abitazione in Rodia (riscattabile con 200 milioni)




In qualità di collaboratore di giustizia, Sparacio ha tra l'altro riferito in merito alla vicenda "Comeco", il consorzio di cooperative realizzato a Messina con l'intento di edificare 16 palazzine a Catania. Secondo il pentito, messi alle strette dagli istituti di credito, i maggiori responsabili del consorzio furono costretti a rivolgersi ad alcuni usurai cittadini, peggiorando la situazione. Il buco passò dai 6 miliardi originari ai 16 [Gaz 16 giugno 94].





Traffico di stupefacenti

"L'attività delinquenziale organizzata trae i più ingenti mezzi e la sua maggiore energia dal traffico di stupefacenti, dove assume un ruolo di decisiva importanza e va estendendosi sempre più sul territorio, quasi a macchia d'olio, occupando prepotentemente uno spazio che possa fruttare altri proventi.[...]

Il mercato della droga coinvolge, purtroppo, fasce sempre più estese della popolazione compresa quella dei giovanissimi, sia nel campo della tossicodipendenza che in quella dello spaccio.

L'estendersi in tale illecito mercato nel territorio di Messina, nel barcellonese e nel milazzese, nonché nell'area del circondario di Patti, deve essere ricollegato al [sempre crescente numero di] giovani [...] che precipitano nel baratro della tossicodipendenza" [AG 1997, 15].





Procedimenti che riguardano stupefacenti (l. n.162/90) [AG 1997, 87]



1. Procedimenti nella fase delle indagini preliminari


Trib. Minori
Trib. Messina
Trib. Barcellona
Trib. Mistretta
Trib. Patti
Totale

Pendenti
11
163
10
1
3
188

Sopravvenuti
50
367
83
5
54
559

Esauriti con rinvio a giud.
16
238
24
2
0
280

Esauriti in altro modo
24
80
56
3
45
488

Totale esauriti
40
318
80
5
45
488

Rimasti pendenti
21
212
13
1
12
259




2. Procedimenti nella fase del giudizio


Trib. Minori
Trib. Messina
Trib. Barcellona
Trib. Mistretta
Trib. Patti
Totale

Pendenti
10
0
21
0
4
35

Sopravvenuti
44
38
4
2
2
90

Esauriti con condanna
10
10
0
1
1
22

Esauriti con assoluzione
0
2
1
1
3
7

Esauriti in altro modo
25
1
2
0
0
28

Totale esauriti
35
13
3
2
4
57

Rimasti pendenti
19
25
22
0
2
68




Le tabelle forniscono un quadro - parziale ma indicativo - delle dimensioni del problema droga a Messina ed in provincia. Da notare inoltre la gravità della situazione a Barcellona (dove si ha l'emergenza criminale più grave di tutta la provincia) e la lentezza dell'apparato giudiziario.

Nella parte dedicata alla storia della mafia messinese, si metteva in evidenza il fattore droga come elemento decisivo per il salto di qualità della criminalità peloritana.

In particolare, veniva citato un articolo del settimanale "i Siciliani" del 1984, in cui si tracciava una mappa dello spaccio e del consumo a Messina. A distanza di tredici anni, un'altra inchiesta giornalistica si occupava dello stesso tema, mostrando che poco o nulla era cambiato nel tempo.

Le zone di spaccio rimangono localizzate nelle aree periferiche corrispondenti ai quartieri tradizionalmente dominati dai clan, vere e proprie zone franche talvolta soggette a 'sorveglianza' da parte degli spacciatori, caratterizzate da una certa omertà diffusa che porta a non collaborare con le forze di polizia, che in queste zone operano con gravi difficoltà: a sud, S. Lucia e Villaggio Aldisio; a nord, Viale Annunziata, Giostra e Villa Lina.

In centro i luoghi dello spaccio sono compresi principalmente tra Gravitelli e via Cannizzaro alta; più raramente, nei pressi di piazza Duomo e sul viale Europa.

1. La droga più diffusa è di gran lunga l'eroina, di provenienza mediorientale. La cocaina rimane droga elitaria e di costo più alto.

2. La mancata legalizzazione della marijuana continua a consegnare alla criminalità un affare di rilievo: se è vero che i prezzi sono piuttosto contenuti (anche se fluttuano notevolmente), è pure vero che si tratta della "droga" più diffusa, specie da quando il mercato è stato invaso dalla cannabis di provenienza albanese. In città si trova ovunque, sia in ambiente universitario che nella centralissima Piazza Cairoli, così come nella galleria Vittorio Emanuele.

3. L'unica vera novità è costituita dalle nuove droghe sintetiche, la più nota delle quali è l'Ecstasy. L'arrivo di queste sostanze non riguarda in maniera significativa (per il momento) il capoluogo ma alcuni locali della costa tirrenica e soprattutto le discoteche di Taormina e Giardini Naxos, dove viene spacciata dalla criminalità catanese.





Traffico di armi

Nel 1993 la Procura di Messina avvia l'inchiesta "Arzente isola" sul traffico d'armi che ha come epicentro la città dello Stretto.

L'indagine - come molte altre aperte dai giudici messinesi nel periodo di "mani pulite" - non avrà alcun seguito. Ma i personaggi coinvolti ed il meccanismo di transazione delle armi offrono uno spaccato di grande interesse su un mondo dove borghesi e mafiosi sono affratellati dalla vendita di morte e dai profitti.

Il primo personaggio coinvolto è Saro Cattafi, che abbiamo già incontrato più volte: ordinovista barcellonese, responsabile dei traffici di droga per il Nord Italia del clan Santapaola.

Il secondo è Saro Spadaro, originario di Santa Teresa di Riva, proprietario di migliaia di metri quadri di terreno e di complessi alberghieri nell'isola di Saint Marteen, nelle Antille olandesi, uno dei punti nevralgici per il riciclaggio dei soldi del narcotraffico. Spadaro, che tra l'altro aveva ospitato Santapaola a Saint Marteen durante la latitanza, era stato in affari con alcuni imprenditori messinesi.

Siamo nel mondo dei "mafiosi in doppiopetto", persone cioè attive in traffici di livello internazionale, nel riciclaggio di denaro mafioso e nel reinvestimento, per conto dei mafiosi, dei proventi del crimine.

Sono gli stessi personaggi che poi è possibile ritrovare come soci d'affari di imprenditori rispettabili, magari indicati come esempio di "economia sana".

Filippo Battaglia, il terzo personaggio di "Arzente isola" è un avvocato messinese titolare di alcune società con sede a Lugano. Battaglia, originario di Rometta (un piccolo paese in provincia di Messina), è un trafficante internazionale di armi: ad un certo punto, tuttavia, torna attivo a Messina, quando tenta la scalata alla squadra di calcio di proprietà dei Massimino.

Anche in questo caso, la presenza di Cosa Nostra (sia catanese che palermitana) è chiara. La sentenza Orsa maggiore riporta alcune dichiarazioni del principale boss messinese:

"Infine, Sparacio racconta di un intervento del Galea affinché non fossero fatti atti di danneggiamento nei confronti di un tale Battaglia Filippo; successivamente analoga richiesta lo Sparacio ebbe da parte di Bagarella" [OM 1997, 666 sgg.]

Eugenio Galea è il 'vice rappresentante provinciale' di Cosa Nostra catanese, cui veniva affidato il compito di trattare con l'esterno e di curare gli appalti e le attività economiche in genere.

Ultimo personaggio è Abdullatif Kweeder, siriano naturalizzato italiano. Al momento dell'avviso di garanzia fa il funzionario presso la segreteria di Giurisprudenza dell'Università di Messina.

Proprio da Giurisprudenza erano transitati sia Rosario Cattafi, "studente" impegnato negli assalti fascisti, e Filippo Battaglia, anche lui studente in legge.

Il teorema investigativo era semplice:

1. i quattro personaggi avrebbero costituito una centrale di import - export per il traffico internazionale di armi;

2. svolgevano agevolmente questo ruolo perché dotati delle competenze, dei contatti e delle relazioni adeguate per un "settore di attività" così impegnativo;

3. l'organizzazione smerciava le armi prodotte dalle tre principali fabbriche d'armi italiane: la Breda di Milano, la Oto Melara di La Spezia e l'Augusta di Varese;

4. gli acquirenti delle armi erano principalmente regimi africani (Marocco), latinoamericani (Perù), mediorientali.

Messina is not Sicily ha detto...

grazie per il contributo
confermi quello che dico

Anonimo ha detto...

veramente tutto il contrario... si tratta di clan mafiosi assolutamente sorti a messina a prescindere dal ruolo della mafia di altri centri

Anonimo ha detto...

in particolare l'episodio di iano ferrara che gode della solidarietà da parte del quartiere cep ed è cosa ben peggiore che quattro ragazzetti che si esprimono in favore della mafia

Messina is not Sicily ha detto...

confermi che con il tempo messina e qualche suo cittadino è stato infettato da fenomeni mafiosi provenienti dalla sicilia
grazie palermo, grazie catania,grazie sicilia!
:-(

Anonimo ha detto...

infettato? stiamo parlando mica del raffreddore? quello si trasmette per contatto, mentre se un messinese delinque o meno con fare mafioso dipende dalle sue intenzioni. altrimenti come esisterebbero le persone per bene nei quartieri a rischio?
se rileggi bene il dossier non si tratta di "qualche" cittadino, ma di organizzazioni capillari tra clan.

Messina is not Sicily ha detto...

infettati perchè siamo vicini geograficamente al popolo siciliano

comunque ci stai che noi messinesi si vada per la nostra strada e voi siciliani per la vostra?

Anonimo ha detto...

l'infezione da mafia sarebbe credibile se supportata da una base scientifica. la vicinanza con palermo e catania non è tale.
se il mio vicino fosse mafioso, emulandone le gesta non potrei mai raccontare al giudice che la colpa è sua per avermi infettato la mafia.

Anonimo ha detto...

auhahuahuahauahuahu


se messina nn fosse stata in sicilia sarebbe stata diversa....nsomma va attipu si me nonnu avia tri paddi era flipper

Messina is not Sicily ha detto...

infatti come ben sai quando in un quartiere ci sono molti mafiosi , il numero di mafiosi si accresce in quello stesso quartiere

di bs non ho capito niente

Anonimo ha detto...

si accresce... come? in che modo? per "infezione"? ribadisco: si diventa mafiosi per intenzione, non per "malattia infettiva".
ribadisco che nessuna base scientifica supporta questa tesi.
a quest'ora sarebbe comodo per galli, sparacio, ferrara e rispettivi affiliati sostenere l'attenuante dell'"infezione da vicinanza palermitana e catanese"...

Messina is not Sicily ha detto...

grazie per il prezioso assist
hai nominato persone pressocchè sconosciute al grande pubblico (che conoscono bene invece santapaola (PA) e riina (CT) es)
l'infezione esiste
se messina fosse stata in alto adige secondo sarebbe stata infettata?
come mai le città infettate sono tanto più infettate più sono vicine a palermo ed alla sicilia?

Anonimo ha detto...

sei tu che hai parlato dell'assenza di una mafia autoctona a messina.
sconosciuti o meno sul territorio nazionale, sono personaggi che hanno intenzionalmente deciso di dar vita ad organizzazioni di stampo mafioso nella città dello stretto.
tornando alla teoria sull'infezione, continui a non dimostrarmi l'attendibilità scientifica della vicinanza.
santapaola, riina, provenzano... tutti quelli che vuoi, ma chi non vuole non delinque e chi vuole si, vicino o lontano che sia.

Messina is not Sicily ha detto...

la mafia autoctona esiste dappertutto
ma una cosa è essere stati infettati e quindi avere portato messinesi ad essere mafiosi attraverso l'infezione, un'altra cosa è partotire la mafia (vedi palermo,catania e la sicilia)

sei tu a non smentire che più si è vicini a palermo ed alla sicilia e più si delinque
più ci si allontana e meno si delinque

Messina is not Sicily ha detto...

dici che sono sconosciuti
ecco questa è la differenza tra chi partorisce la mafia e chi invece ne viene infettato

Anonimo ha detto...

non ci sono le modalità attraverso le quali avverrebbe questa infezione.
fin quando le suddette non saranno chiarite, la vicinanza sarà considerabile una scarsa attenuante.
oltretutto, ti contraddici un pò quando affermi che si delinque meno se lontani da palermo e contemporaneamente citi le realtà malavitose calabresi, pugliesi e campane che da palermo distano di più rispetto a messina.

delinquere è stata una scelta.
un uomo di valore, invece, per quanto la mafia più potente stia due passi dice no.

un conto è prendere atto delle sproporzioni tra messina e quelle altre città in termini di notorietà e pericolosità, e nessuno può azzardarsi a negarle, altra cosa è concentrare le colpe sulla vicinanza.

giusto per fare un esempio, un pedofilo di periferia per essere considerato essere ignobile non deve mica arrivare ai livelli del mostro di marcinelle.

un pò come l'italia verso il resto d'europa, si dovrebbe finirla col recepire sempre gli esempi peggiori dai vicini.
è triste vedere messina con uno spirito imprenditoriale di una piattezza sconfortante, in cui la famiglia franza gode di un monopolio di sostanza.
mentre la vicina catania (e non sono catanese) è nota come la milano del sud: non sarebbe meglio prendere questi come esempi?

avercela con la malavita catanese e palermitana non per forza deve tradursi nell'avercela con catania e palermo.

Messina is not Sicily ha detto...

falso
la puglia più lontana da palermo ha solo la sacra corona unita
più si scende e ci si avvicina a palermo ed alla sicilia più è forte la malavita
vedi la ndrangheta

Anonimo ha detto...

"solo" la sacra corona unita: hai detto niente...
e si tratta pur sempre, così anche nel caso della ndrangheta, di realtà sorte per iniziativa locale, a prescindere dalle organizzazioni siciliane.

Antonino Ingegnere ha detto...

chi ha detto che Messina non è Sicilia?
Sono messinese e come il 101% dei messinesi mi sento siciliano.

Messina is not Sicily ha detto...

la sacra corona unita non conta niente perchè è nata in puglia e per loro fortuna a distanza da palermo

per tonino: tu sarai uno di quei messinesi per adozione.Io parlo ai messinesi con 5 ascendenze pure di messinesi

Antonino Ingegnere ha detto...

Dici che io sono un messinese per adozione? Effettivamente, la mia famiglia è di origine veneta, ma da almeno la metà del XVI vive a Faro Superiore, quindi conta tu da quante generazioni io sono Messinese ....anzi Farese!
Altra cosa..... porta quà, questa gente che come dici tu, vorrebbe l'indipendenza di Messina nei confronti della Sicilia...

Anonimo ha detto...

su quali basi puoi affermare che la sacra corona unita non conti niente?

ben lontana da palermo vi è anche la camorra: cosa da niente anche quella?

Messina is not Sicily ha detto...

più si è lontani dal virus mafioso palermitano più le associazioni criminali sono diminuite in pericolosità
vedi ndrangheta, camorra, sacra corona unita

Anonimo ha detto...

veramente la camorra ha conosciuto le sue fasi sia di ascesa che di ridimensionamento nonostante la campania non si sia mai mossa da dov'è...
rimanendo dunque alla medesima distanza da palermo per tutta la durata della sua storia.
ah, leggi un pò qui com'è diminuita in pericolosità la ndrangheta http://www.tgcom.mediaset.it/cronaca/articoli/articolo411031.shtml

Messina is not Sicily ha detto...

allora non capisci
io dico che TERRITORIALMENTE più si è vicini a palermo e più si viene infettati

Anonimo ha detto...

come avverrebbe l'infezione non l'hai ancora dimostrato.
repetita iuvant: un cittadino può anche trovarsi la mafia a due passi, ma se vuole mafioso non lo diventa.
ed anche a messina c'è chi ha deciso di diventarlo.
TERRITORIALMENTE la camorra è un fenomeno malavitoso di grande rilievo che dista più da palermo rispetto ad altre zone più vicine alla sicilia ma di più basso livello di criminalità organizzata.

Messina is not Sicily ha detto...

si ma la sacra corona unita è meno della camorra, la camorra è meno della ndrnagheta , e la ndrangheta è meno che la mafiaecco spiegato l'infezione

certo che ci sono alcuni messinesi mafiosi ma ciò è avvenuto per infezione non come a palermo per "creazione del fenomeno mafia"

Anonimo ha detto...

infezione NON spiegata a prescindere dalla teoria della distanza.
repetita iuvant: se i mafiosi stan vicino a me, nessuno mi obbliga a diventare come loro.
milazzo è più vicina a palermo rispetto a san luca, ma quanto a portata malavitosa il paragone è proprio impensabile a danno di san luca.

Messina is not Sicily ha detto...

grazie dei sempre preziosi assist
san luca ti ricordo che è vicino a zone della locride...ed ho detto tutto

Anonimo ha detto...

grazie ancora delle autoreti!!!
la ndrangheta non è più lontana da palermo?
parole tue: più ci si allontana da palermo, meno ci si infetta.

Messina is not Sicily ha detto...

e infatti a san luca non c'è la mafia ma la ndrangheta che è molto meno pesante della mafia così come la camorra è meno pesante della ndrngheta così' come la sacra corona unita è meno pesante delle altre criminalità del sud

Anonimo ha detto...

e il gioco allo shopenhauer continua...
pur trovandosi là dove sussiste un fenomeno malavitoso di minor (non poi così tanto: omicidio princi docet) portata rispetto a quello mafioso, san luca è molto più malavitosa di tanti centri meno lontani rispetto a palermo.

Messina is not Sicily ha detto...

assolutamente falso
il centro mafioso meno importante è sempre più pericoloso del centro della ndranghetà più importante

Anonimo ha detto...

continua pure nel tuo brodo dei circa quaranta stratagemmi...

prima parli di distanza da palermo, poi ripieghi sui centri mafiosi...

capo d'orlando, non lontanissima da palermo, molto meno malavitosa di san luca, in calabria.

grazie ancora dei tuoi autogol.

Messina is not Sicily ha detto...

come no? capo d'orlando...
se non sbaglio il sindaco è stato in galera per un pò
forse sbaglio correggimi..